«Forse stavolta proverai a darmi retta.»
Era un colpo basso. Spalancai gli occhi, mentre lui continuava: «Non so ancora per quanto riuscirò a sopportare i tuoi piagnistei. Mando è morto, la colpa è in parte tua, d’accordo. Ma ti avvelenerà il sangue e ti farà stare male, finché non metterai tutto per iscritto, come t’ho detto.»
«Ah, Tom…»
E mi assalì, mi spinse di nuovo! Era un atteggiamento in cui indulgeva solo con Steve; mi veniva voglia di dargli un pugno, ma nello stesso tempo mi sentivo lusingato.
«Ascoltami, per una volta!» gridò. D’un tratto mi resi conto che era turbato.
«Ti ascolto, lo sai.»
«Allora fa’ come t’ho detto. Scrivi la tua storia. Tutto quel che ricordi. Scriverla t’aiuterà a capire. E al termine avrai anche la storia di Mando. La cosa migliore che puoi fare per lui, ora. Capisci?»
Annuii, con un groppo in gola. Mi schiarii la voce. «Ci proverò.»
«Non provarci: scrivi e basta!» Mi scostai, per impedirgli di darmi un’altra spinta. «Ah! Fai bene: scrivi, oppure te le suono. Sarà il tuo compito di scuola. Non ti darò più lezioni, finché non l’avrai terminato.»
Agitò il pugno contro di me. Il braccio era un fascio di tendini a fior di pelle, magro come una fune. A momenti mi mettevo a ridere.
Così ci pensai. Tolsi il libro dallo scaffale su cui era rimasto appoggiato per sostenere una vaschetta per la cote con due sole gambe. Sfogliai le pagine bianche. Ce n’era un mucchio. Era chiaro quant’è brutto uno scorfano che non sarei mai riuscito a riempire tutte quelle pagine. Per dirne una, ci sarebbe voluto troppo tempo.
Ma continuai a pensarci. Il senso di vuoto non smetteva di tormentarmi. E con l’accorciarsi delle giornate, nella baracca le notti diventavano sempre più lunghe; i ricordi li avevo già in mente, scoprii. E il vecchio era stato davvero veemente, al proposito…
Prima che alzassi anche solo una matita, tuttavia, Kathryn dichiarò che era tempo di raccogliere il granturco. Quando lei decideva, tutti noi che lavoravamo per lei c’impegnavamo dall’alba al tramonto, ogni giorno. All’alba ero già fuori con gli altri a recidere con la falce i gambi, a portare le piante ai carri, a tirare i carri al di là del ponte fino alle alture e ai magazzini dietro la casa dei Mariani, a strappare le foglie, a staccare le pannocchie scartocciate.
A causa dei violenti temporali estivi, il raccolto fu misero e terminò in fretta. E fu la volta delle patate. Kathryn e io ce ne occupammo insieme. Non ci eravamo visti spesso, da quella notte in casa di Doc; sulle prime ero a disagio, ma sembrava che Kathryn non avesse niente da rimproverarmi. Ci limitammo a lavorare, a parlare di patate. Aiutare Kathryn era estenuante. La mattina sembrava che tutto andasse bene, perché lei lavorava con tanto accanimento da fare più della sua parte; ma il guaio era che continuava con quel ritmo per tutta la giornata, per cui ero costretto ogni giorno a fare più del normale lavoro, per quanto ne lasciassi a lei. E raccogliere patate è un lavoro che sporca, che spezza la schiena, in qualsiasi modo si proceda.
Festeggiammo la conclusione del raccolto con una piccola bevuta allo stabilimento dei bagni. Nessuno era particolarmente felice, perché era stato un raccolto scarso; ma almeno era in magazzino. Kathryn sedette accanto a me sulle seggiole nel prato dello stabilimento, a guardare il tramonto; Rebel e Kristen si unirono a noi. Dall’altra parte del cortile, Del e Gabby si lanciavano un pallone. Le fiamme del falò erano a malapena visibili contro lo sfondo del cielo color salmone. Rebel era sconvolta dalla raccolta di patate, quasi piangeva; Kathryn parlava parecchio, per tirarla su di morale.
«I parassiti sono una maledizione che bisogna sopportare. L’anno prossimo proveremo un po’ di quella roba che ho avuto dagli sciacalli. Non preoccuparti, ci vuole un bel po’ di tempo per imparare a coltivare la terra. I germogli non crescono come i figli, sai.»
A queste parole, Kristen sorrise: il primo sorriso che le vedevo dalla morte di Mando.
«Nessuno patirà la fame» dissi.
«Ma sono già stufa di mangiare pesce» protestò Rebel. Le ragazze risero di lei.
«Non si direbbe, da quanto ne mangi» replicò Kristen.
Kathryn sorseggiò pigramente il whisky. «Cos’hai fatto ultimamente, Hank?»
«Mi sono messo a scrivere quel libro che Tom m’ha dato» mentii, per vedere l’effetto della notizia.
«Ah, sì? Scrivi della valle?»
«Certo.»
Kathryn inarcò le sopracciglia. «Della…»
«Già.»
«Uhm.» Fissò il fuoco. «Be’, è una buona idea. Forse da questa estate nascerà qualcosa di buono, dopotutto. Ma scrivere un intero libro? Sarà dura davvero.»
«Oh, sì» le assicurai. «Quasi impossibile, a essere sinceri. Comunque, m’impegno.»
Tutt’e tre le ragazze parvero impressionate.
Allora ci pensai ancora un poco. Tolsi di nuovo il libro dallo scaffale e lo misi sul ripiano accanto al letto, vicino alla lampada, alla tazza e al libro delle tragedie di Shakespeare che Tom mi aveva regalato per Natale. E pensai. A quando la storia era iniziata, molto tempo fa… le riunioni con gli altri della banda, i progetti per l’estate. Non si tratta proprio di saccheggiare una tomba, aveva detto Steve, e mi svegliai di scatto…
Così cominciai a scrivere.
Era un lavoro lento. Cercare di scrivere era per me come cercare di parlare per Roger lo Strambo. Ogni notte giuravo di smettere per sempre. Ma la notte seguente, o quella dopo ancora, ricominciavo. È incredibile quanti ricordi tornino alla mente, se strizzi la memoria. Certe notti, terminato di scrivere, tornavo di nuovo in me ed ero sorpreso di essere nella nostra baracca, con il sudore che mi colava lungo le costole, le mani irrigidite, le dita doloranti, il cuore che batteva per emozioni di giorni passati. E lontano dal lavoro, in una barca sollevata dai marosi violenti, mi ritrovavo a pensare a quel che era avvenuto, al modo di raccontarlo. Capivo che avrei terminato il libro, senza badare al tempo necessario. Ero preso all’amo.
Le serate d’autunno assunsero uno schema. Quando i pesci erano sui banchi di pulitura, mi arrampicavo sulla scogliera. Nessuna banda ad accogliermi. Con fermezza ignoravo i fantasmi che vi si radunavano e andavo a casa, in genere durante il primo buio della sera. A casa, Pa’ metteva l’olio nella casseruola e friggeva un po’ di pesce e cipolle, mentre io accendevo la lampada, preparavo la tavola e parlavo come al solito degli avvenimenti della giornata. Fritto il pesce, ci sedevamo a tavola; Pa’ diceva la preghiera di ringraziamento, poi mangiavamo pesce e pane, o patate. Dopo cena, lavavamo i piatti, sparecchiavamo, bevevamo il resto dell’acqua della cena, ci pulivamo i denti servendoci di uno spazzolino recuperato dagli sciacalli.
Poi Pa’ sedeva al tavolo da cucito e io a quello da pranzo; lui cuciva stoffa, io cucivo parole, finché eravamo d’accordo che era l’ora d’andare a letto.
Non so quante serate siano trascorse in questo modo. Nei giorni di pioggia era la stessa cosa, solo durava per tutta la giornata. Circa una volta alla settimana andavo da Tom. Poiché gli avevo promesso che avrei scritto il libro, aveva acconsentito a darmi ancora lezioni. Mi faceva studiare l’Otello. Ero sicuro di sapere perché. Credevo d’avere molto da rimproverarmi, ma Otello! L’unico personaggio di Shakespeare più stolto di me.