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L’altro mio fratello, un fratello vero e proprio, Paul, era ancora vivo a quel tempo. Io, lui ed Eric avevamo in teoria il compito di far divertire Blyth. Facevamo del nostro meglio, portavamo Blyth nei nostri posti preferiti, lo lasciavamo giocare coi nostri giocattoli, facevamo dei giochi con lui. Io e Eric dovevamo trattenerlo, certe volte, quando voleva per esempio buttare nell’acqua il piccolo Paul per vedere se galleggiava, o quando voleva abbattere un albero e farlo cadere sul binario che passa da Portneil, ma in generale ce la cavavamo sorprendentemente bene, anche se mi rodeva vedere Eric spaventato in modo così evidente da Blyth, che in fondo aveva la sua stessa età.

E così un giorno, caldissimo e pieno di insetti, con un venticello leggero che arrivava dal mare, eravamo tutti stesi nell’erba, nella zona pianeggiante a sud rispetto alla casa. Paul e Blyth si erano addormentati, e Eric se ne stava con le mani dietro alla nuca a fissare con aria sonnacchiosa l’azzurro acceso del cielo. Blyth si era staccato la gamba di plastica, cava all’interno, e l’aveva lasciata per terra in un groviglio di cinghie e lunghi fili d’erba. Vidi Eric addormentarsi a poco a poco, la testa dolcemente riversa da un lato, gli occhi che si chiudevano. Mi alzai e andai a farmi un giro, e mi ritrovai al Bunker. Non aveva ancora assunto quell’importanza che avrebbe avuto in seguito nella mia vita, anche se il posto già mi piaceva e mi sentivo a mio agio lì, al freddo e al buio. Era uno sgabuzzino in muratura costruito subito prima dell’ultima guerra per custodire un cannone di protezione al fiordo, e stava impiantato nella sabbia come un grosso dente grigio. Entrai e trovai il serpente. Era una vipera. All’inizio non l’avevo notata, perché mi stavo divertendo a conficcare una vecchia asse di legno attraverso le crepe dello sgabuzzino, facendo finta che si trattasse di un pezzo d’artiglieria, e a sparare a pecore immaginarie. Fu solo quando finii di giocare che, dopo aver pisciato in un angolo, diedi un’occhiata all’altro angolo, ingombro di lattine arrugginite e vecchie bottiglie. Fu lì che vidi le striature zigrinate del serpente addormentato.

Decisi ciò che avrei fatto immediatamente dopo. Uscii senza far rumore e trovai un pezzo di legno della forma giusta, tornai al Bunker, presi il serpente per il collo con il pezzo di legno e lo impacchettai nella prima lattina arrugginita che avesse ancora un coperchio.

Non credo che il serpente fosse del tutto sveglio quando lo catturai, e feci attenzione a non sballottarlo troppo mentre tornavo di corsa al posto in cui i miei fratelli e Blyth stavano stesi sull’erba. Eric si era rigirato e teneva una mano sotto la testa, l’altra sugli occhi. Aveva la bocca leggermente aperta e il petto si muoveva piano. Paul era disteso al sole, avvolto su se stesso come una palla, perfettamente immobile, e Blyth stava a pancia in giù, con le mani sotto la guancia, col moncherino della gamba sinistra, sollevata tra i fiori e l’erba, che spuntava dai calzoni corti come una mostruosa erezione. Mi avvicinai, con la lattina arrugginita sempre ben stretta. La parte superiore della casa, dove il tetto è spiovente, vegliava su di noi dall’alto, a cinquanta metri circa di distanza, senza finestre. Nel giardino del retro sventolavano debolmente dei lenzuoli bianchi. Il cuore mi batteva all’impazzata, e mi bagnai le labbra con la saliva.

Mi misi a sedere accanto a Blyth, facendo attenzione a che la mia ombra non gli passasse sul volto. Appoggiai un orecchio alla lattina e la tenni ferma. Non riuscivo a sentire il serpente muoversi. Raggiunsi la gamba artificiale di Blyth, liscia e rosa, appoggiata alle sue reni, nell’ombra proiettata dal corpo. Accostai la gamba alla lattina e tirai via il coperchio, facendo scivolare nel frattempo la gamba sull’apertura. Poi capovolsi lentamente la lattina e la gamba nell’altro verso, in modo tale che la lattina fosse sopra rispetto alla gamba. Agitai la lattina, e sentii il serpente cadere dentro la gamba. All’inizio non gli piaceva, e si muoveva e sbatteva contro le pareti di plastica e l’imboccatura della lattina che io tenevo in mano sudando. Nel frattempo io restai in silenzio ad ascoltare il ronzio degli insetti e il fruscio dell’erba, e guardavo Blyth disteso là, muto e immobile, con i capelli scuri arruffati di quando in quando dal vento. Mi tremavano le mani e il sudore mi colava sugli occhi.

Il serpente smise di muoversi. Lo tenni un altro po’, con lo sguardo rivolto ancora una volta verso casa. Poi ribaltai di nuovo la gamba e la lattina, riportando la gamba sull’erba nella stessa posizione in cui si trovava prima, dietro a Blyth. Tirai via la lattina all’ultimo momento, facendo molta attenzione. Non accadde nulla. Il serpente era ancora dentro alla gamba, non riuscivo neanche a vederlo. Mi alzai, indietreggiai verso la duna più vicina, lanciai la lattina in alto, verso la sommità, poi tomai sui miei passi, mi sdraiai di nuovo dove stavo prima, e chiusi gli occhi.

Eric fu il primo a svegliarsi, io aprii gli occhi come se avessi dormito, poi svegliammo Paul e nostro cugino. Blyth mi evitò il disturbo di suggerire una partita a pallone perché fu lui stesso a proporla. Io, Eric e Paul ci avviammo insieme a prendere i posti di gioco mentre Blyth si allacciava in fretta la gamba.

Nessuno ebbe sospetti. Dal primo momento, quando io e i miei fratelli stavamo lì increduli davanti a Blyth che urlava e saltava e si tirava la gamba, fino al doloroso addio dei genitori di Blyth e alle testimonianze raccolte da Diggs (alcuni stralci di esse apparvero addirittura sull’Inverness Courier per quanto erano insoliti, e furono poi ripescati anche da un paio di giornalacci giù a Londra), nessuno avanzò l’ipotesi che potesse trattarsi di qualcosa di diverso da un incidente tragico e alquanto macabro. Solo io ne sapevo di più.

Non lo dissi a Eric. Era sotto shock per quanto era successo e sinceramente dispiaciuto per Blyth e i suoi genitori. Dissi solamente che ritenevo una punizione divina sia il fatto che Blyth avesse perso la gamba, sia che la sostituzione della gamba stessa si fosse poi rivelata lo strumento della sua rovina. E tutto per via dei conigli. Eric a quel tempo era nel bel mezzo di una fase religiosa che si supponeva anch’io, sulla sua scia, stessi in qualche modo attraversando. Pensò che avessi detto una cosa terribile. Dio non era così. Gli dissi che il dio in cui credevo io era proprio così.

In ogni caso, fu questo il motivo per cui quel pezzo di terra prese il nome di Parco del Serpente.

Me ne stavo a letto, e ripensavo a tutte queste cose. Mio padre non era ancora rientrato. Forse avrebbe passato la notte fuori. Cosa estremamente insolita, e piuttosto preoccupante. Forse era stato accoppato, o era morto d’infarto.

Ho sempre avuto un atteggiamento piuttosto ambiguo nei confronti di ciò che potrebbe succedere a mio padre, e tuttora continuo ad averlo. La morte è sempre eccitante, ti fa sempre sentire quanto tu sia vivo, quanto vulnerabile ma fortunato, almeno fino a quell’istante. La morte di qualcuno che ti è vicino, invece, ti offre una buona scusa per dare di matto per un po’, per fare cose che altrimenti sarebbero ingiustificabili. Che bellezza comportarsi veramente male e ricevere in cambio compassione!

Mi mancherebbe, mio padre, e poi non so se la legge mi permetterebbe di continuare a starmene qui senza di lui. Avrei tutti i suoi soldi? Sarebbe un’ottima cosa; potrei comprarmela subito, la moto, invece di aspettare. Cristo, ci sarebbero talmente tante cose che potrei fare che neanche saprei da dove cominciare a pensarci. Comunque sarebbe un grosso cambiamento e non so se è già il momento.