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A dire il vero mi piacerebbe non dover stare a trascinarmi dietro dal paese chili di zucchero e taniche di diserbante con cui riempire i pezzi di condutture elettriche che mi procura Jamie il nano dall’impresa edile dove lavora. È un’assurdità, con una cantina piena zeppa di cordite, in quantità tale da poter cancellare dalla carta geografica metà dell’isola, ma mio padre non mi ci lascia nemmeno avvicinare, a quella roba.

Fu il padre di mio padre, Colin Cauldhame, a procurarsi la cordite dal cantiere di riparazione navale che un tempo stava giù sulla costa. Un suo parente che lavorava là aveva trovato una vecchia nave da guerra con la santabarbara ancora piena di esplosivo. Colin comprò la cordite e la adoperò per la combustione domestica. Quando è priva di involucri, la cordite è ottima per accendere il fuoco. Colin ne acquistò in quantità tale che sarebbe bastata al fabbisogno casalingo per circa duecento anni, anche se l’avesse usata pure il figlio; forse pensava di venderla. So che mio padre per un po’ l’ha usata per accendere la stufa, ma in altri periodi non l’ha usata per niente. Dio sa quanta ancora ce n’è là sotto. Ne ho visti interi mucchi, con i marchi della Royal Navy ancora impressi sopra, e ho pensato a tutti i mezzi possibili e immaginabili per riuscire a impossessamene: ma, a meno che non riuscissi a introdurmi nella cantina scavando un tunnel dalla rimessa e a tirare fuori la cordite da dietro, in modo tale da lasciare gli imballaggi apparentemente intatti, non vedo in che altro modo ce la potrei fare. Mio padre controlla la cantina ogni due o tre settimane, scende giù nervosamente con una torcia, conta le balle di esplosivo, dà una sniffatina intorno, e controlla il termometro e l’igrometro.

È bello fresco giù in cantina, non è umido, anche se immagino che questo sia possibile solo al di sopra del livello di superficie freatica, e mio padre sembra sapere quello che fa, ed è certo del fatto che l’esplosivo non sia diventato poco affidabile, ma credo che la cosa lo innervosisca ugualmente, almeno da quando ci fu l’episodio del Cerchio della Bomba. (Colpevole, ancora una volta. Era ancora colpa mia. Il mio secondo omicidio, quello che cominciò a far cadere sospetti su di me da parte di alcuni membri della famiglia.) Ma se ha tanta paura di quell’esplosivo, non capisco perché non se ne sbarazza. Credo che covi una sua piccola superstizione riguardo alla cordite. Una sorta di legame col passato, o forse un demone nascosto, un simbolo di tutti i misfatti della nostra famiglia; che attende, forse, di coglierci un giorno di sorpresa.

In ogni caso, io non ho accesso alla cantina, e mi tocca perciò trasportare dal paese metri e metri di tubi neri di metallo, e sudarci sopra, e faticarci. Li incurvo e li taglio e li perforo e li comprimo e poi li incurvo ancora, stringendoli al massimo nella morsa, finché il banco da lavoro e tutta la rimessa scricchiolano dallo sforzo. Credo che si tratti di una vera e propria arte, in un certo senso, e di sicuro richiede abilità, ma a volte mi annoio, ed è soltanto il pensiero di come le utilizzerò, queste piccole torpedini nere, che mi fa continuare a sputar sangue dalla fatica.

Misi tutto a posto e ripulii la rimessa cancellando ogni traccia degli ordigni costruiti, poi rientrai per la cena.

«Lo stanno cercando» disse all’improvviso mio padre tra un boccone di cavolo e uno di soia. I suoi occhi scuri mi lanciarono un’occhiata tremolante come una fiamma alta e fuligginosa, poi tornò ad abbassare lo sguardo. Aprii una birra, di quelle che faccio io, e ne buttai giù un po’. Questa volta era venuta meglio del solito, era anche più forte.

«Eric?»

«Sì, Eric. Lo stanno cercando nelle paludi.»

«Le paludi?»

«Credono che potrebbe essere là.»

«Certo, sarà questo il motivo per cui lo cercano là.»

«Esatto» annuì mio padre. «Che hai da bofonchiare?»

Mi schiarii la gola e continuai a mangiare l’hamburger, facendo finta di non aver sentito.

«Stavo pensando…» disse, e si sbatté in bocca un’altra cucchiaiata di quell’intruglio verde e marrone, continuando a masticarlo a lungo. Ero in attesa di sentire quel che avrebbe aggiunto. Agitò debolmente il cucchiaio, puntandolo verso il piano di sopra, poi disse: «Quanto sarà lungo il filo del telefono?»

«Normale o tirato?» chiesi io prontamente, appoggiando la birra sul tavolo. Si limitò a borbottare, senza aggiungere altro, e tornò al suo cibo, apparentemente soddisfatto anche se non propriamente contento. Continuai a bere.

«C’è qualcosa di particolare che ti potrei ordinare dal paese?» disse alla fine, sciacquandosi la bocca con un bicchiere di succo d’arancia. Scossi la testa e tornai alla birra.

«Niente. Il solito» risposi con una scrollata di spalle.

«Patate precotte, hamburger, zucchero, tortini di carne, cornflakes e altre schifezze del genere, immagino» disse in tono leggermente sarcastico, per quanto le parole fossero già di per sé eloquenti.

Annuii. «Sì, perfetto. Conosci i miei gusti.»

«Non hai un’alimentazione corretta. Avrei dovuto essere più severo con te.»

Non dissi nulla e continuai lentamente a mangiare. Credo che mio padre mi stesse guardando dall’altro capo del tavolo, agitando il suo succo d’arancia e fissandomi mentre calavo la testa sul piatto. Scosse la testa e si alzò da tavola, portandosi il piatto al lavandino per sciacquarlo.

«Esci stasera?» mi chiese, aprendo il rubinetto.

«No, stasera resto a casa. Esco domani sera.»

«Voglio sperare che non ti riduca male anche stavolta, completamente sbronzo come al solito. Una di queste sere ti arrestano e poi dove andremo a finire?» Mi guardò. «Eh?»

«Non ho nessuna intenzione di sbronzarmi» lo rassicurai. «Mi faccio solo due o tre bicchieri per socializzare, questo è tutto…»

«Be’, fai un sacco di rumore quando torni, per uno che ha semplicemente fatto un po’ il socievole.» Mi lanciò un’occhiata scura e tornò a sedersi.

Alzai le spalle. Sicuro che mi ubriaco. Che diavolo bevi a fare se poi non ti ubriachi? Ma ci vado piano. Non voglio creare complicazioni.

«Allora stai attento. Lo sento dalle scorregge, quanto hai bevuto» disse, facendo un grugnito come a volerne imitare una.

Mio padre ha una teoria riguardo al legame importantissimo e stretto che intercorre tra la mente e l’intestino. È un’altra delle sue idee che tira fuori quando vuole fare colpo su qualcuno, ha un manoscritto sull’argomento (Lo stato della scorreggia) che di tanto in tanto spedisce a certe case editrici di Londra, che ovviamente lo rimandano indietro. Nel manoscritto mio padre asserisce in vari modi che dalle scorregge è possibile capire non solo quello che la gente ha mangiato o bevuto, ma anche che tipo di persone sono, che cosa dovrebbero mangiare, se sono individui emotivamente instabili o sconvolti, se nascondono qualcosa, se ti ridono alle spalle o cercano di ingraziarsi i tuoi favori, e addirittura quello a cui pensano nell’istante preciso in cui emettono la scorreggia (soprattutto dal suono prodotto). Tutte stronzate.

«Mah» dissi io in tono non compromettente.

«Sì che sono in grado di capirlo» ribatté lui mentre io, finito di mangiare, mi appoggiavo allo schienale, pulendomi la bocca col dorso della mano, più che altro per infastidirlo. Continuò ad annuire. «So quando bevi birra chiara e quando bevi quella a doppio malto. E ti ho sentito addosso anche la Guinness.»

«La Guinness non la bevo» mentii, ma la cosa mi colpì profondamente. «Ho paura di slogarmi la gola.»

Questo tocco d’arguzia gli scivolò addosso senza lasciare traccia, almeno apparentemente, e continuò: «Sono solo soldi buttati nel cesso, lo sai. Non aspettarti che finanzi il tuo alcolismo».