«Smettila con queste sciocchezze» gli dissi alzandomi in piedi.
«So bene di cosa parlo. Ho visto gente migliore di te credere di saperci fare con la bottiglia, e poi finire nella fogna a bere vino liquoroso.»
Se con quest’ultima uscita intendeva colpire basso, allora aveva mancato il colpo: la vecchia solfa della “gente migliore di te” non funzionava più da tempo.
«La vita è mia, non credi?» dissi, e, posato il piatto nel lavandino, lasciai la cucina. Mio padre non disse nulla.
Quella sera guardai la tv e misi un po’ in ordine le mie mappe, aggiornandole con il posto dell’ultimo nome che avevo assegnato, la Collina della Distruttrice Nera, e aggiunsi una breve descrizione di quel che avevo fatto ai conigli, registrando sia gli effetti delle bombe che le istruzioni di fabbricazione dell’ultima serie. Decisi che in futuro avrei tenuto la Polaroid nella Borsa da Guerra. Per certe spedizioni punitive a basso rischio come quella contro i conigli, infatti, la Polaroid potrebbe abbondantemente ripagarmi del peso extra e del tempo perso a usarla. Naturalmente quando si tratta di nefandezze più serie la Borsa da Guerra deve essere portata così com’è, e una macchina fotografica sarebbe solo un impiccio, ma è un paio d’anni che non ci sono vere e proprie minacce in giro, sin da quella volta in cui certi ragazzi del paese si erano messi a darmi fastidio e a farmi degli agguati per la strada.
Pensavo che le cose sarebbero andate storte per un po’, ma loro non esagerarono come mi aspettavo facessero. Una volta li minacciai con il coltello, dopo che quelli mi avevano fermato — ero in bici — e avevano cominciato a darmi spintoni e a chiedermi soldi. Quella volta se ne andarono, ma qualche giorno dopo tentarono di invadere l’isola. Li tenni a distanza con pietre e proiettili metallici, e loro risposero con fucili ad aria compressa, e per un po’ la cosa mi divertì, ma poi arrivò la signora Clamp per le commissioni settimanali e minacciò di chiamare la polizia, e dopo averla apostrofata con due o tre appellativi sgradevoli, i ragazzi se ne andarono.
Cominciai allora a organizzare un sistema di munizioni, mettendo insieme rifornimenti di proiettili metallici, sassi, bulloni e piombini da pesca e seppellendo il tutto, dentro a sacchetti di plastica o scatole, in certi punti strategici dell’isola. Preparai anche delle trappole, e dei fili collegati a bottiglie di vetro sparse sull’erba delle collinette oltre il torrente, in modo tale che se a qualcuno fosse venuto in mente di intrufolarsi, gli sarebbe capitato o di restare intrappolato o di inciampare nel filo, tirando la bottiglia fuori dalla buca e facendola finire contro una pietra. Per qualche notte restai in piedi a fare la guardia, sporgendo la testa dal lucernario posteriore della soffitta, con l’orecchio teso ad ascoltare l’eventuale tintinnio del vetro che andava a infrangersi, o le imprecazioni smorzate che qualcuno avrebbe potuto lanciare, oppure il segnale più insolito degli uccelli che, disturbati, avrebbero preso il volo, ma non accadde più nulla. Mi limitai a evitare per un po’ i ragazzi giù in paese, andandoci solo insieme a mio padre oppure quando sapevo che erano a scuola.
Il sistema di munizioni esiste ancora, e ci ho aggiunto anche un paio di bombe a benzina in uno o due dei rifugi segreti, dove un possibile percorso d’attacco si snoda per il terreno su cui dovrebbero schiantarsi le bottiglie, mentre i fili d’allarme li ho smantellati e li ho lasciati nella rimessa. Il mio Manuale di Difesa, che contiene cose come le piantine dell’isola con gli armamenti segnati, i possibili percorsi d’attacco, un elenco di tattiche e una lista di armi che posseggo o che potrei costruire, include in quest’ultima categoria un po’ di cose spiacevoli come i fili d’allarme e le trappole posizionate a un paio di metri di distanza da una certa bottiglia rotta che spunta dall’erba, le mine a denotatore elettrico fatte con bombe a tubo e piccoli chiodi, il tutto seppellito nella sabbia, insieme ad alcune interessanti, per quanto improbabili, armi segrete, come per esempio frisbee con rasoi inseriti lungo il bordo.
Non che voglia ammazzare qualcuno, adesso, è per difesa più che per offesa, e mi fa sentire molto più al sicuro. Presto avrò i soldi per una balestra potentissima, e davvero non vedo l’ora, mi consolerà soprattutto per non avercela mai fatta a convincere mio padre a comprare un fucile o una pistola che qualche volta avrei potuto usare anch’io. Ho le mie catapulte e le fionde e il fucile ad aria compressa, e tutt’e tre potrebbero rivelarsi letali in circostanze adeguate, ma non hanno una gittata sufficiente rispetto a quella che vorrei io. Lo stesso vale per le bombe a tubo. Bisogna posizionarle, o almeno lanciarle contro il bersaglio, e usare la fionda per scagliare quelle più piccole — le costruisco così proprio per questo scopo — si rivela un’azione lenta e imprecisa. Anche con la fionda è possibile commettere cattive azioni: le bombe a fionda devono avere una miccia piuttosto corta, in modo che esplodano immediatamente dopo aver colpito il bersaglio, prima che possano essere rilanciate indietro, e già per un paio di volte ho sfiorato l’incidente, visto che mi sono scoppiate subito dopo essere partite dalla fionda.
Ho avuto a che fare anche con armi da fuoco, naturalmente, sia a proiettile che a mortaio, con una parabola di tiro molto più ampia di quella delle bombe a fionda, ma si sono rivelate poco pratiche, pericolose, lente e pronte a esplodere quando meno te lo aspetti.
L’ideale sarebbe un fucile da caccia, anche se forse preferirei un calibro 22, ma la balestra andrà bene lo stesso. Forse un giorno riuscirò a escogitare un modo per aggirare la mia ufficiale non-esistenza e fare richiesta di un’arma, ma tutto sommato non è detto che mi darebbero il porto d’armi. A volte penso, magari fossi in America!
Stavo facendo l’inventario delle bombe a benzina, il cui grado di evaporazione non era stato controllato di recente, quando squillò il telefono. Guardai l’orologio, e mi stupii di quanto fosse tardi: quasi le undici. Scesi di corsa le scale per raggiungere il telefono, e mentre passavo davanti alla stanza di mio padre lo sentii avvicinarsi alla porta.
«Portneil 531.» Sentii un bip-bip provenire dalla cornetta.
«’Fanculo Frank, ho i calli ai piedi. Come cazzo se la passa il mio maschione?»
Guardai il ricevitore, e poi mio padre che, appoggiato al corrimano, si sporgeva dal piano di sopra, ficcandosi il sopra del pigiama dentro i calzoni. Parlai dentro la cornetta: «Ciao, Jamie, com’è che mi chiami a quest’ora?»
«Cheeee? C’è il vecchio lì davanti a te, vero?» disse Eric. «Digli da parte mia che è un sacco di pus ribollente.»
«Jamie ti manda i suoi saluti» gridai a mio padre, che senza dire una parola si voltò e tornò alla sua stanza. Sentii la porta che si chiudeva. Tornai al telefono. «Eric, dove sei stavolta?»
«Merda, non te lo dico. Indovina.»
«Non so… Glasgow?»
«Ah ah ah ah ah ah!» ridacchio Eric. Strinsi tra le mani la plastica della cornetta.
«Come stai? Tutto bene?»
«Sto bene. E tu?»
«Benissimo. Senti, hai da mangiare? Ha dei soldi? Te ne vai in giro in autostop o cosa? Ti stanno cercando, lo sai, ma al notiziario non hanno ancora detto niente. Non è che…» Mi fermai prima che trovasse qualcosa da ridire.
«Me la passo bene. Mangio i cani! Eh eh eh!»
«Oddio, non dirai sul serio?» borbottai.
«E che altro potrei mangiare? È magnifico, Frankie; me ne sto in giro per boschi e campi e cammino un sacco e mi faccio dare passaggi qua e là e quando arrivo vicino a un paese mi cerco un bel cane grasso e succulento e ci faccio amicizia e me lo porto nei boschi e poi lo ammazzo e me lo mangio. Niente di più semplice. Adoro la vita all’aperto.»
«Ma almeno li cuoci?»
«Certo che li cuocio, cazzo» disse Eric indignato. «Per chi mi hai preso?»