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Alcune parti di me pensavano che tutto questo fosse insensato, ma erano in netta minoranza. Le parti restanti sapevano che la cosa funzionava. Mi dava potere, mi faceva diventare tutt’uno con ciò che posseggo e con il luogo in cui mi trovo. Mi faceva sentire tutta la mia bontà.

* * *

Trovai una fotografia di Paul da piccolo in uno degli album che tenevo in soffitta, e dopo la cerimonia scrissi il nome della nuova fionda dietro alla foto, la accartocciai attorno a un pezzetto di metallo e fissai il tutto con un po’ di nastro adesivo, poi me ne andai, via dalla soffitta e dalla casa, nella pioggerella gelida del primo mattino.

Raggiunsi le rovine del vecchio attracco che sta al confine settentrionale dell’isola. Tirai la stringa di gomma al massimo e lanciai il proiettile con la fotografia, che si librò fischiando nell’aria verso il mare aperto e avvolgendosi su se stesso a spirale. Non vidi il tonfo nell’acqua.

Le mie fionde restano al sicuro finché nessuno ne conosce il nome, o almeno così dovrebbe essere. La cosa non ha funzionato per la Distruttrice Nera, certo, ma l’ho causata io la sua morte commettendo un errore, e il mio potere è talmente forte che quando sbaglio, cosa rara ma non impossibile, anche gli oggetti che avevo investito di una grandissima forza protettiva diventano vulnerabili. Ancora una volta, nella mia testa-Stato, provavo rabbia al pensiero di aver commesso un tale errore e nello stesso tempo alimentavo la determinazione a non ricaderci mai più. Mi sentivo come un generale che veniva punito o fucilato per aver perso una battaglia o un territorio importante.

Insomma, feci tutto il possibile perché la nuova fionda potesse considerarsi al sicuro, e anche se mi dispiaceva che l’episodio delle Terre del Coniglio mi fosse costato un’arma fidata con molte onorificenze belliche legate al suo nome (per non parlare della cospicua somma sottratta al budget della Difesa), pensai che forse era stato un bene che fosse andata così. Quella parte di me che aveva commesso l’errore con il coniglio, lasciandogli per un attimo avere la meglio, avrebbe potuto essere ancora qui in giro se non ci fosse stato quell’episodio decisivo a smascherarla. Il generale incompetente e scriteriato era stato destituito. Col ritorno di Eric, forse avrei avuto bisogno dei miei poteri e dei miei riflessi al massimo dell’efficienza.

Era ancora molto presto, e anche se avrei dovuto sentirmi un po’ giù per la bruma e la pioggia conservavo il buon umore che la cerimonia di nominazione mi aveva messo addosso.

Mi venne voglia di fare una corsa, e allora lasciai la giacca vicino al Palo che avevo sistemato il giorno che Diggs era arrivato con la notizia, e mi legai la fionda ben stretta tra la cintura e i pantaloni. Dopo aver controllato che i calzini fossero dritti e a posto, diedi una stretta agli scarponi per ottenere la giusta tensione per la corsa, poi cominciai a correre lentamente lungo la striscia di sabbia dura tra le alghe della riva. La pioggerella andava e veniva, e tra la foschia e la bruma si intravedeva ogni tanto il disco rosso sfumato del sole. Da nord arrivava un vento sottile, e io mi voltai da quella parte. Presi velocità gradualmente fino a raggiungere un’andatura stabile moderata, a passo lungo, che mi faceva funzionare correttamente i polmoni e costituiva un buon allenamento per le gambe. Le braccia, coi pugni serrati, si muovevano secondo un ritmo fluido, mandando avanti prima una spalla, poi l’altra. Respiravo profondamente, affondando i piedi nella sabbia. Mi diressi verso quella parte in cui il corso del fiume si fa più intricato e l’acqua va a sbattere avanti e indietro sulle sponde sabbiose, e regolai il passo in modo tale da poter oltrepassare facilmente i vari canaletti, un balzo alla volta. Raggiunto quel posto, abbassai la testa e aumentai la velocità. Sbattevo la testa e i pugni contro il vento, mentre i piedi si torcevano, schizzavano nell’aria, stringevano la presa del terreno e spingevano.

L’aria mi sferzava, mentre raffiche sottili e pungenti di pioggia mi colpivano man mano che ci andavo contro. I polmoni esplodevano, implodevano, esplodevano, implodevano; la sabbia bagnata mi schizzava a fiotti dalle scarpe e si alzava sempre di più man mano che acceleravo, disegnando piccole curve nell’aria, e più correvo più i grumi mi inzaccheravano le spalle. Alzai il viso e gettai la testa all’indietro, scoprendomi il collo e offrendolo al vento e alla pioggia come fosse un atto d’amore. Il fiato mi raschiava la gola, e quella sorta di debolezza che avevo provato un momento prima a causa dell’iperossigenazione svanì non appena l’eccesso di forza nel sangue fu riassorbito dai muscoli. Mi lanciai al massimo, aumentando ancora la velocità mentre la linea frastagliata di alghe morte, vecchi pezzi di legno, lattine e bottiglie mi guizzava velocemente accanto. Mi sentivo come una perla infilata che corre dritta sul suo filo, con le gambe, la gola e i polmoni che mi risucchiavano dall’interno e mi sospingevano con uno slancio inesauribile di fluida energia. Tirai a quella velocità finché mi fu possibile, poi, quando sentii che cominciavo a perdere colpi, cercai di rilassarmi, continuando per un po’ a correre veloce, ma senza esagerare.

Mi misi ad attraversare la spiaggia puntando dritto di fronte, e le dune sulla sinistra sembravano muoversi al mio passaggio, come le tribune attorno a un tracciato da corsa. Davanti si vedeva il Cerchio della Bomba, dove sarebbe terminata la mia corsa, o dove comunque avrei svoltato. Raggiunsi di nuovo la massima velocità, a testa bassa, urlando dentro di me, gridando mentalmente, e la mia voce era come un torchio che schiacciava sempre più forte e mi spremeva fino in fondo per ottenere dalle gambe lo sforzo finale. Attraversai la spiaggia quasi volando, col corpo assurdamente inclinato in avanti, i polmoni in fiamme, le gambe pulsanti.

Subito dopo rallentai quasi di scatto, lasciando che la corsa diventasse un trotterellare man mano che mi accostavo al Cerchio della Bomba. Ci arrivai quasi barcollando, poi mi gettai sulla sabbia del cratere e lì rimasi a terra ad ansimare, a rantolare, a respirare affannosamente, con lo sguardo fisso verso il cielo grigio e la bruma invisibile, con le gambe e le braccia spalancate e le rocce tutt’intorno. Il petto saliva e scendeva, il cuore batteva dentro alla sua gabbia. Nelle orecchie sentivo un rimbombo soffocato, e tutto il corpo fischiava e ronzava. I muscoli delle gambe sembravano inebetiti dal fremito. Lasciai cadere la testa da un lato, la guancia appoggiata alla sabbia fresca e umida.

Mi chiesi come fosse la morte.

Il Cerchio della Bomba, la gamba di mio padre, il suo bastone, la sua riluttanza a comprarmi una moto, le candele nel teschio, il mucchio di topi e criceti morti, tutto questo è colpa di Agnes, la seconda moglie di mio padre, mia madre.

Non me la ricordo, mia madre, perché se me la ricordassi la odierei. Odio il suo nome, odio il solo pensiero di lei. Fu lei a fare in modo che gli Stove si portassero Eric a Belfast, lontano dall’isola, lontano dalle cose che conosceva. Gli Stove pensavano che mio padre fosse un cattivo genitore perché metteva a Eric vestiti da femmina e gli faceva fare il comodo suo, e mia madre lasciò che se lo portassero via perché non le piacevano i bambini in generale, e in particolare non le piaceva Eric. Pensava che Eric in qualche modo potesse influire negativamente sul suo karma. Forse fu proprio l’avversione per i bambini che la spinse ad abbandonarmi immediatamente dopo la nascita, per tornare un’altra volta soltanto, in quella fatale occasione in cui si trovò a essere almeno in parte responsabile del mio piccolo incidente. In fondo credo di avere delle buone ragioni per odiarla. Me ne stavo là per terra nel Cerchio della Bomba, dove avevo ucciso l’altro suo figlio, e speravo che anche lei fosse morta.