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«Potto fare una p’ova?»

«Fa’ una prova con la sabbia.»

«Potto coppire le pottanghere?»

«Sì, esercitati con le pozze d’acqua. È una buona idea.»

«Potto coppire quetta pottanghera?» Fece segno con la trave verso la pozza circolare intorno alla bomba. Scossi la testa.

«No, la campana si potrebbe arrabbiare.»

Aggrottò le ciglia. «Si allabbiano le campane?»

«Sì. Ora vado. Tu colpisci la campana forte forte e io sto a sentire forte forte, va bene?»

«Tì, Frank.»

«Non colpire la campana finché non ti faccio segno, va bene?»

Scosse la testa. «Te lo pometto.»

«Bene. Non ci metterò molto.» Mi voltai e cominciai a correre lentamente dirigendomi verso le dune. Provai una strana sensazione alla schiena. Intanto che andavo avanti, mi guardavo intorno per controllare che non ci fosse nessuno in giro. C’erano solo dei gabbiani che roteavano nel cielo chiazzato di nuvole. Quando mi voltai, vidi Paul. Era rimasto vicino alla bomba, e picchiava la sabbia con il suo pezzo di legno, tenendolo con tutt’e due le mani e sbattendolo a terra con quanta forza aveva in corpo, e intanto strillava e saltellava. Mi misi a correre più forte, oltre le rocce, sulla sabbia ferma, oltre i detriti del mare, sulla sabbia dorata e asciutta — qui dovetti rallentare — fino a raggiungere l’erba della duna più vicina. Mi inerpicai sulla cima e guardai lontano, oltre la sabbia e le rocce, verso Paul, la cui esile figura si stagliava contro il riverbero abbagliante delle pozze e della sabbia bagnata, sovrastato dall’ombra del cono obliquo di metallo che aveva accanto. Rimasi in piedi, aspettando che mi vedesse, diedi un’altra occhiata in giro e gli mandai il segnale, agitando le braccia alte sopra il capo, poi mi buttai a terra.

Mentre ero lì ad aspettare mi venne in mente che non avevo detto a Paul dove doveva colpire. Non accadde nulla. Rimasi dov’ero, sentivo lo stomaco sprofondare lentamente nella sabbia che ricopriva la duna. Sospirai e alzai lo sguardo.

Paul in lontananza pareva un pupazzo, sussultava e saltava, tirava indietro il braccio e picchiava più e più volte sulla parte laterale della bomba. Il mormorio dell’erba nel vento quasi copriva i suoi vigorosi gridolini. «Merda» dissi tra me e me, e mi appoggiai col mento sulla mano, ma in quel momento Paul, dopo aver dato un’occhiata veloce verso di me, cominciò a colpire il muso della bomba. Aveva dato un solo colpo, e io avevo tolto la mano da sotto il mento per prepararmi ad assumere una posizione di riparo, quando Paul, la bomba, la pozza che la circondava e tutte le altre cose che stavano lì attorno nel giro di dieci metri improvvisamente svanirono in un’alta colonna di sabbia, vapore e lapilli di roccia che in quell’istante breve e accecante si accese all’interno per via della foltissima detonazione esplosiva.

L’alta torre di detriti si alzò e ricadde ammucchiandosi, cominciando a ridiscendere nello stesso istante in cui l’onda d’urto mi raggiunse dalla duna. Ebbi una vaga consapevolezza delle cascatelle di sabbia che precipitavano dalle fiancate riarse delle dune circostanti. In quel momento il rumore si avvolse su se stesso, con uno schiocco ritorto, una specie di brontolio gastrico forte come un tuono. Rimasi a guardare gli schizzi circolari che si allargavano sempre più dal centro dell’esplosione man mano che le macerie ricadevano a terra. La colonna di fumo e sabbia era sospinta dal vento, e nell’ombra la sabbia si faceva più scura, formando nella parte inferiore una cortina di foschia, come quelle che si vedono al di sotto di una nuvola densa quando inizia a sgravarsi della pioggia. Riuscii a scorgere il cratere.

Scesi giù di corsa. Mi fermai a circa cinquanta metri dal cratere ancora fumante. Non mi misi a fissare con attenzione quei pezzi e frammenti sparsi tutt’attorno, li guardai soltanto con la coda dell’occhio, perché volevo e nello stesso tempo non volevo vedere brandelli di carne sanguinolenta o resti di abiti. Il rumore risuonò in modo incerto riecheggiando dalle colline oltre il paese. Il bordo del cratere era segnato da grosse schegge di pietra, staccatesi dalla superficie rocciosa sottostante, che circondavano quella scena come denti spezzati, rivolti verso il cielo oppure riversi a terra. Rimasi a guardare la nube lontana dell’esplosione spingersi alla deriva al di sopra del fiordo e disperdersi, poi mi voltai e mi misi a correre più forte che potevo per tornare a casa.

Ora so che si trattava di una bomba tedesca di cinquecento chilogrammi sganciata da un He.111 in avaria che tentava di rientrare alla base in Norvegia dopo aver fallito un attacco alla base aeronavale giù nel fiordo. Mi piace pensare che sia stato il mio fucile del Bunker a colpire l’aereo e a costringere il pilota a dare un colpo di coda e lanciare la bomba.

La punta di qualche scheggia rocciosa ancora si vede far capolino dalla sabbia che ormai da lungo tempo è tornata a coprire quella superficie. Questi spunzoni formano il Cerchio della Bomba, il monumento più adatto a commemorare il povero Pauclass="underline" un cerchio blasfemo di pietre teatro di ombre.

Ancora una volta la fortuna fu dalla mia parte. Nessuno vide niente, e nessuno poté credere che il fatto l’avessi commesso io. Il dolore mi inebetì, quella volta, il senso di colpa mi dilaniò, ed Eric dovette prendersi cura di me mentre io interpretavo la mia parte alla perfezione. Non mi piaceva ingannare Eric, ma sapevo che era necessario. Non potevo dirgli che era stata colpa mia perché non avrebbe capito il motivo che mi aveva spinto a commettere quell’azione. Ne sarebbe rimasto terrificato, e molto probabilmente non sarebbe stato mai più mio amico. E così mi toccò fare la parte della creaturina innocente afflitta e rosa dal senso di colpa, e a Eric toccò consolarmi mentre mio padre ci rimuginava sopra.

A dire il vero non mi piacque molto il modo in cui Diggs mi interrogò sull’accaduto, e per qualche istante credetti che avesse capito tutto, ma poi le mie risposte sembrarono soddisfarlo. Ero anche un po’ in imbarazzo perché dovevo chiamare mio padre “zio” ed Eric e Paul “cugini”. L’idea era di mio padre, voleva imbrogliare Diggs riguardo i miei legami di parentela nel caso il poliziotto si fosse messo a fare domande in giro e avesse scoperto che ufficialmente io non esistevo. Gli raccontammo che io ero il figlio del fratello minore di mio padre, morto da tanti anni, e che mi trovavo sull’isola per una vacanza prolungata, passando da un parente all’altro nell’attesa che si decidesse del mio futuro.

In ogni caso, riuscii a tirarmi fuori da quell’impiccio, e per una volta anche il mare collaborò, arrivando subito dopo l’esplosione a spazzare via qualunque traccia rivelatrice avessi lasciato prima che Diggs potesse arrivare dal villaggio per ispezionare il luogo.

La signora Clamp era a casa quando rientrai, stava scaricando il grosso cesto di vimini della sua vecchissima bicicletta che aveva appoggiato di fianco al tavolo di cucina. Era intenta a riempire la credenza, il frigorifero e il freezer con il cibo e le provviste che aveva portato dal paese.

«Buon giorno, signora Clamp» dissi io cortesemente entrando in cucina. Si voltò a guardarmi. La signora Clamp è molto anziana ed estremamente minuta. Mi squadrò da capo a piedi e disse: «Ah, sei tu?» e tornò a girarsi verso il cestino di vimini, scavando in profondità con entrambe le mani per portare in superficie dei pacchetti di forma allungata avvolti in carta di giornale. Con andatura barcollante si portò verso il freezer, si arrampicò su uno sgabello, scartò i pacchi che rivelarono il proprio contenuto (erano i miei hamburger) e li piazzò nel freezer, sporgendosi fino quasi a ficcarcisi dentro. Mi attraversò il pensiero di quanto sarebbe stato facile… Scossi la testa per liberarmi di quel pensiero stupido. Mi sedetti al tavolo per guardare la signora Clamp al lavoro.

«Come se la passa in questi giorni, signora Clamp?» le chiesi.

«Oh, abbastanza bene» disse la signora Clamp scuotendo la testa mentre scendeva dallo sgabello e ritornava al freezer con altri hamburger surgelati in mano. Che si stesse congelando anche lei? Avevo la certezza di scorgere piccoli cristalli di ghiaccio luccicare sulla leggera peluria del suo volto.