Выбрать главу

Alla fine arrivai all’isola. La casa era immersa nell’oscurità. Rimasi a guardarla al buio, appena consapevole della sua presenza fisica sotto i fievoli raggi di una luna spezzata, e pensai che sembrava più grande di quello che in realtà era. Pareva la testa di un gigante di pietra, un imponente teschio che alla luce della luna mostrasse le sue forme e i suoi ricordi, con lo sguardo fisso verso il mare, attaccato a un corpo grosso e potente sepolto nella roccia e nella pietra, pronto a scrollarsi, a liberarsi, a disseppellirsi a qualche misterioso comando o segnale. La casa guardava fisso verso il mare, verso la notte, e io ci entrai.

5. Un mazzo di fiori

Ho ucciso la piccola Esmeralda perché lo sentivo come un dovere nei miei confronti e per il mondo in generale. Gli altri due a mio carico, dopotutto, erano maschi, ed eliminandoli avevo fatto una specie di favore alla schiatta delle donne, statisticamente parlando. Se davvero avessi il coraggio di farmi carico delle mie convinzioni — avevo allora pensato — a questo punto dovrei riequilibrare un pochino la bilancia. E la mia cuginetta era il bersaglio più facile e ovvio che potessi trovare, tutto qui.

Anche questa volta non c’era niente di personale. I bambini non sono persone vere e proprie, nel senso che non sono piccoli uomini e piccole donne ma una specie a parte composta di esemplari che (forse) diventeranno individui dell’uno o dell’altro sesso, a tempo debito. Quelli molto piccoli, poi, che non hanno subito i condizionamenti nefasti e insidiosi dei genitori o della società, sono davvero asessuati, e quindi di gradevolissima compagnia. Esmeralda mi era simpatica (anche se trovavo il suo nome un po’ sdolcinato) e giocavo volentieri con lei quando veniva a trovarci. Era figlia di Harmsworth e Morag Stove, parenti della prima moglie di mio padre. Eric era andato a stare da loro per un paio d’anni, da quando ne aveva tre fino a quando ne compì cinque. Di solito arrivavano da Belfast per passare l’estate da noi. Mio padre andava molto d’accordo con Harmsworth, e insieme si concedevano vacanze davvero rilassanti, visto che di Esmeralda me ne occupavo io. Credo che la signora Stove non si fidasse poi tanto, quell’estate, a lasciare Esmeralda con me, in quanto era passato soltanto un anno da quando il piccolo Paul aveva perso tragicamente la vita; ma io, che avevo compiuto nove anni, mi dimostravo felice, ormai a posto dopo quella tremenda esperienza, molto responsabile e intelligente, e, ogni volta che qualcuno tornava sull’argomento, visibilmente triste per l’infausto destino toccato a mio fratello. Ho la certezza che fosse soltanto la mia coscienza sinceramente pulita a farmi apparire del tutto innocente agli occhi degli adulti che mi stavano attorno. Riuscii addirittura a bleffare doppiamente, fingendo profondi sensi di colpa per le ragioni sbagliate, e così gli adulti mi dicevano che non potevo addossarmi la responsabilità dell’accaduto per non aver avvertito Paul in tempo. Ero davvero geniale.

Avevo già deciso che avrei tentato di assassinare Esmeralda ancor prima che lei e i suoi genitori arrivassero per le vacanze. Eric era via per un campo-scuola, quindi saremmo rimasti da soli lei e io. Sarebbe stata una faccenda rischiosa, a così breve distanza dalla morte di Paul, ma dovevo assolutamente fare qualcosa per riequilibrare la bilancia. Lo sentivo nelle viscere, nelle ossa. Dovevo. Era come un prurito, qualcosa a cui non avevo modo di resistere, come quando cammino per strada a Portneil e accidentalmente striscio il tallone contro una sporgenza del marciapiede. Devo immediatamente strisciare anche l’altro piede, e cerco di farlo anche con la stessa intensità, nei limiti del possibile. Solo così riesco a sentirmi di nuovo bene. Lo stesso mi succede quando sfioro un muro o un lampione col braccio. Devo strofinare subito anche l’altro, o almeno grattarmi con l’altra mano. Ho una vasta gamma di modi per mantenere stabile l’equilibrio, anche se non so assolutamente perché lo faccio. Sono cose che vanno fatte, punto e basta. Dunque, per lo stesso motivo, dovevo assolutamente sbarazzarmi di qualche femmina, per portare la bilancia a pendere dall’altra parte.

Quell’anno mi era presa la fissa degli aquiloni. Credo fosse il 1973. Li facevo con diversi materiali: canne e sterpi e appendiabiti di metallo e picchetti da campeggio in alluminio e pezzi di carta e fogli di plastica e sacchi per il pattume e stracci e spago e corda e filo di nylon e tutti i tipi di cinghie e stringhe e fibbie e fasce elastiche e cavi metallici e mollette e viti e chiodi e frammenti cannibalizzati da modellini di barche e altri giocattoli. Costruii una manovella con impugnatura doppia e nottolino di arresto, lasciando lo spazio per mezzo chilometro di filo attorno al cilindretto centrale; feci diverse code da abbinare ai modelli cui fossero state necessarie, e decine di aquiloni di diversa grandezza, alcuni dei quali particolarmente adatti al volo acrobatico. Li tenevo nella rimessa, e quando la collezione raggiunse dimensioni consistenti dovetti addirittura togliere da lì la bici e metterla sotto un telone.

Quell’estate portai spesso Esmeralda a giocare con gli aquiloni. La lasciavo divertire con un modello piccolo, a filo unico, mentre io facevo volare uno di quelli acrobatici, lanciandolo ora più in alto ora più in basso rispetto al suo, o tuffandolo nella sabbia dall’alto di una collina. Tiravo il filo fino a colpire le alte torri di sabbia che avevo costruito, poi riportavo l’aquilone in alto, che si librava nell’aria trascinandosi dietro una scia di sabbia smossa. Una volta buttai giù anche una diga, mettendoci però un sacco di tempo e sacrificando un paio di aquiloni prima di riuscirvi. Li scaraventavo in modo tale che a ogni botta colpissero di taglio la parte alta dello sbarramento. Riuscii così ad aprire una fessura via via più larga attraverso cui l’acqua cominciò a filtrare, finché non inondò l’intera diga e il villaggio di sabbia che proteggeva.

Un giorno, mentre stavo in cima a una duna a combattere col mio aquilone contro la forza del vento, e stringevo e tiravo e aggiustavo e attorcigliavo, una di quelle spire si avvolse a cappio attorno al collo di Esmeralda, e fu allora che mi venne l’idea. Avrei usato un aquilone.

Rimasi immobile dov’ero a pensarci con calma, come se nulla mi fosse passato per la testa, come se la mia concentrazione fosse rivolta unicamente al pilotaggio dell’aquilone. Pensai che l’idea fosse più che ragionevole. Mentre rimuginavo, la faccenda prese forma da sola, sviluppandosi e rinvigorendosi fino a diventare quella che avrei concepito in formula definitiva come la nemesi della mia cuginetta. Sogghignai, me ne ricordo bene, e feci scendere il mio aquilone fulmineo e aguzzo attraverso l’acqua e gli sterpi, la sabbia e la risacca, finché guizzò nel vento con sobbalzi e virate a strapiombo e andò a colpire la mia cuginetta seduta in cima a una duna che strattonava spasmodicamente il filo stretto in mano, alto nel cielo. Si voltò, sorrise e strillò, strabuzzando gli occhi alla luce dell’estate. Mi misi a ridere, tenendo sotto controllo contemporaneamente la cosa che stava per aria e quella che avevo in testa.

Feci un grosso aquilone.

Era così grande che neanche ci stava nella rimessa. Lo ricavai da alcuni picchetti di alluminio che avevo trovato in soffitta tempo prima, e da altri che avevo preso alla discarica. La parte non metallica l’avevo fatta in un primo tempo con i sacchi per il pattume, ma poi l’avevo sostituita con pezzi di tenda da campeggio, trovati sempre in soffitta.

Adoperai inoltre per la parte dell’impugnatura, che avevo rinforzato con una cassettina che tenesse ben saldo il tutto, del filo da pesca di nylon arancione, arrotolato attorno a uno speciale cilindretto. La coda era fatta di pagine tutte attorcigliate di Armi da fuoco munizioni, una rivista che a quell’epoca compravo regolarmente. Dipinsi sull’aquilone, con la vernice rossa, la testa di un cane, perché ancora credevo di essere del segno cinese del Cane. Anni prima mio padre mi aveva detto che ero di quel segno perché Sirio era in cielo al momento della mia nascita. Comunque, era solo un simbolo.