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Era uno della squadra di soccorso organizzata da Diggs. Mio padre e gli zii si erano accorti della nostra assenza e, visto che non erano riusciti a trovarci da nessuna parte, avevano chiamato la polizia. Il forestale arrivò in cima alla duna fischiettando e sferzando a casaccio sterpi e canne con un bastone.

Finsi di non accorgermi della sua presenza. Continuai a tenere lo sguardo fisso e a rabbrividire, con i fiori stretti nel pugno. Il forestale segnalò il ritrovamento, passando parola da un anello all’altro della catena di uomini che perlustravano la zona delle dune, e subito dopo arrivarono Diggs e mio padre, ma io finsi di non notare neanche loro. Alla fine attorno a me si erano ammassate un sacco di persone, mi guardavano, mi facevano domande, si grattavano la testa, si guardavano l’orologio e sbirciavano attorno. Ma io sembravo non accorgermi affatto di loro. Si rimisero in riga e continuarono a cercare Esmeralda, mentre gli altri mi portarono a casa. Mi offrirono da mangiare — stavo veramente morendo di fame — ma sembrai non accorgermi neanche della minestra. Mi fecero delle altre domande, a cui rispondevo con sguardo assente e un silenzio catatonico. Lo zio e la zia, con la faccia rossa e gli occhi bagnati, mi turbarono molto, ma io non diedi segno di accorgermi di loro. Infine mio padre mi portò in camera, mi spogliò e mi mise a letto.

Qualcuno rimase nella mia stanza per tutta la notte, ma io non chiusi occhio né lasciai dormire chi mi stava accanto, sia che si trattasse di mio padre che di Diggs che di chiunque altro: per un po’ me ne stavo in silenzio, simulando il sonno, poi di colpo urlavo con quanto fiato avessi in gola e mi buttavo giù dal letto e mi dimenavo sul pavimento. Ogni volta che facevo questa scena c’era qualcuno che mi tirava su, mi abbracciava teneramente e mi rimetteva a letto. Ogni volta facevo finta di riaddormentarmi, e dopo qualche minuto tornavo a fare pazzie. Se qualcuno mi parlava, io restavo a letto e tremavo, con gli occhi persi nel vuoto, senza emettere alcun suono, incapace di sentire le loro parole.

Andai avanti così fino all’alba, quando la squadra di soccorso rientrò, senza Esmeralda. A quel punto mi addormentai.

Mi ci volle una settimana per riprendermi, e fu una delle settimane più belle della mia vita. Eric era tornato dal campo-scuola e io ricominciai un po’ a parlare dopo il suo arrivo. In un primo momento pronunciavo solo parole senza senso, poi presi a dare qualche indizio sparso sull’accaduto, a cui seguivano sempre urla e catatonia.

Verso metà settimana al dottor MacLennan fu concesso di vedermi per un attimo, dopo che Diggs respinse la pretesa di mio padre di non farmi visitare da nessuno. Comunque lui restò nella stanza durante la visita, torvo e sospettoso, per accertarsi che il medico si mantenesse entro certi limiti. Tirai un sospiro di sollievo quando gli impedì di osservarmi dalla testa ai piedi, e per risposta recuperai un qualche barlume di lucidità.

Finita la settimana continuai sporadicamente a fingere incubi, improvvisi silenzi e tremiti, ma mangiavo ormai in modo quasi normale e rispondevo correttamente a gran parte delle domande. Quando si parlava di Esmeralda e di ciò che le era capitato finiva sempre che urlavo e mi facevo venire degli attacchi, ma dopo i lunghi e pazienti interrogatori di Diggs e mio padre, feci in modo che venissero a conoscenza di quello che io volevo che sapessero: un grosso aquilone, Esmeralda impigliata nei fili, io che cercavo di aiutarla, la manovella che mi scivolava di mano, la corsa disperata, poi un vuoto.

Dissi inoltre di aver paura di portare iella, di portare morte e distruzione a tutti quelli che mi stavano attorno, e anche che temevo di dover andare in carcere perché la gente avrebbe pensato che io avessi ucciso Esmeralda. Piangevo e mi stringevo a mio padre, e mi stringevo anche a Diggs. Sentivo l’odore della stoffa ruvida della divisa blu, e in quel momento mi sembrò quasi che il poliziotto si sciogliesse, e che credesse alle mie parole. Gli chiesi di andare alla rimessa, tirare fuori tutti i miei aquiloni e bruciarli, cosa che lui puntualmente fece, in una fossa che adesso si chiama Valle del Rogo degli Aquiloni. Mi dispiacque per gli aquiloni, e sapevo che mai più avrei potuto giocarci se volevo che la faccenda continuasse a risultare credibile, ma ne valeva la pena. Esmeralda non fece mai più la sua comparsa. Nessuno la vide più dopo di me, come dimostrarono anche le inchieste di Diggs tra i pescatori e gli operai delle piattaforme.

Fu così che pareggiai il conto e mi regalai una fantastica settimana di grande recitazione, anche se la cosa non fu semplice. I fiori che stringevo ancora in pugno quando mi riportarono a casa mi erano poi stati sottratti, ed erano stati messi in una busta di plastica sopra al frigorifero. Li trovai là due settimane dopo, morti e avvizziti, abbandonati e dimenticati. Li presi, una notte, e li portai nel mio reliquiario su in soffitta, e ancora li conservo, attorcigliati e secchi come avanzi fossili di nastro adesivo, infilati in una bottiglietta di vetro. Certe volte mi chiedo dove sia andata a finire mia cugina; in fondo al mare, o sbattuta dai flutti su qualche costa scoscesa e deserta, oppure schizzata dal vento contro la fiancata di un alto monte, a far da cibo ad aquile e gabbiani…

Mi piace pensare che sia morta mentre ancora volava attaccata all’aquilone gigante, che abbia volteggiato intorno al mondo e sia salita ancora più in alto, consunta e sempre più leggera per la fame e per la sete, fino a diventare nient’altro che un esile scheletro in balia delle correnti aeree del pianeta, una specie di Olandesina Volante. Ma dubito che una visione così romantica delle cose possa rispecchiare la realtà.

Passai gran parte della domenica a letto. Dopo la baldoria della notte precedente avevo bisogno di riposarmi, di reidratarmi, di mangiare un po’, insomma di farmi passare la sbronza. Mi venne quasi voglia di decidere che mai più avrei bevuto, ma, visto che ero ancora molto giovane, capii che non sarebbe stata una cosa molto realistica, quindi decisi che non avrei più bevuto a quel modo.

Mio padre venne a bussare alla porta della mia stanza quando non mi vide apparire per la colazione.

«Che cosa c’è che non va, ammesso che ci sia bisogno di chiederlo?»

«Niente» gracchiai io attraverso la porta chiusa.

«Passerà» disse lui con sarcasmo. «Quanto hai bevuto ieri sera?»

«Non molto.»

«Mmm…» commentò.

«Scendo subito» replicai, e mi rigirai un po’ nel letto per fare rumore, come se stessi per alzarmi.

«Eri tu al telefono stanotte?»

«Che?» chiesi io, smettendola di agitarmi.

«Eri tu, vero? L’ho capito che eri tu. Hai cercato di camuffarti la voce. Perché hai chiamato a quell’ora?»

«Ahh… Non ricordo di aver chiamato, sinceramente…» dissi io con cautela.

«Che idiota che sei, ragazzo mio» rispose, e se ne tornò di sotto zoppicando. Me ne rimasi nel letto, a pensare. Non avevo affatto telefonato a casa, quella notte. Avevo passato il mio tempo con Jamie al pub, poi eravamo andati fuori con la ragazza, poi li avevo smollati e avevo iniziato a correre, poi avevo finito per ritrovarmi di nuovo con Jamie, e infine con lui e sua madre, poi avevo preso la strada di casa in stato di semi-sobrietà. Non c’erano momenti di vuoto. Capii che doveva essere stato Eric a chiamare. A sentire mio padre, la conversazione non doveva essere durata molto, altrimenti avrebbe riconosciuto la voce del figlio. Rimasi a letto, a pancia in su, sperando che Eric fosse ancora lontano dalla sua meta, e anche che la testa e le budella la smettessero di ricordarmi quanto fossero capaci di sentirsi male.