Выбрать главу

«Ma guardati!» disse mio padre quando io alla fine, nel pomeriggio, scesi giù in vestaglia per guardare un vecchio film in tv. «Spero che tu sia fiero di te. Spero che tu creda che ridurti così ti faccia sentire uomo» aggiunse in tono di rimprovero, poi scosse la testa e tornò a leggere il Scientific American. Mi adagiai compitamente in una delle comode poltrone del salotto.

«Ho bevuto un po’ ieri sera, papà, lo ammetto. Mi dispiace che la cosa ti abbia sconvolto tanto, ma ti assicuro che ne sto già pagando le conseguenze.»

«Bene, spero che ti serva da lezione. Sai quante cellule cerebrali sei riuscito a distruggerti in una notte?»

«Qualche migliaio» risposi dopo una breve pausa per fare il conto.

Mio padre annuì con entusiasmo: «Almeno!»

«Bene, cercherò di non farlo più.»

«Mmmh.»

«Brrap!» replicò rumorosamente il mio ano, sorprendendo me tanto quanto mio padre. Mise giù la rivista e guardò fisso davanti a sé al di sopra della mia testa, con un sorrisetto saggio, mentre io mi schiarivo la gola e sventolavo l’orlo della vestaglia con la maggiore discrezione possibile. Vidi le sue narici incresparsi e tremolare.

«Birra chiara e whisky, eh?» disse lui, annuendo tra sé e sé e ritornando alla rivista. Mi accorsi che stavo arrossendo e digrignai i denti, felice del fatto che si fosse nuovamente immerso nella sua carta patinata. Ma come diavolo avrà indovinato? Feci come se nulla fosse successo.

«Oh. A proposito» dissi. «Spero che per te non sia un problema, ma ho detto a Jamie che Eric è scappato.»

Mi lanciò un’occhiata da sopra alla rivista, scosse la testa e continuò a leggere. «Idiota» disse.

Quella sera, dopo uno spuntino veloce che non era una vera e propria cena, andai in soffitta e usai il binocolo per dare un’occhiata da lontano all’isola, per accertarmi che non fosse successo niente durante il tempo che avevo passato dentro casa. Pareva tutto tranquillo. Uscii per una breve passeggiata nella nebbia fitta e fredda, dalla spiaggia fino al confine meridionale e ritorno, poi rincasai e guardai un altro po’ di tv, anche perché si era messo a piovere, una pioggia sospinta da un vento leggero che mugugnava lamentoso battendo contro la finestra.

Ero già a letto quando squillò il telefono. Mi alzai di scatto — non stavo ancora dormendo — e corsi giù per rispondere prima che lo facesse mio padre. Non sapevo se era ancora in piedi.

«Sì?» dissi col fiatone, cacciandomi la giacca del pigiama dentro ai calzoni. Prima si sentirono dei bip, poi dall’altro capo qualcuno sospirò.

«No.»

«Che cosa?» dissi io aggrottando le sopracciglia.

«No» rispose la voce dall’altro capo.

«Eh?» dissi io. Non avevo neanche la certezza che fosse Eric.

«Tu hai detto “Sì”. Io dico “No”.»

«Cosa dovrei dire?»

«“Portneil 531.”»

«D’accordo. Portneil 531. Pronto?»

«Bene. Ciao.» La voce ridacchiò e il telefono ammutolì. Guardai la cornetta con un’aria di rimprovero, poi riattaccai. Esitai un attimo. Il telefono squillò ancora. Risposi di scatto quando era ancora a metà il primo squillo.

«S…» cominciai a rispondere, poi risuonarono i bip. Aspettai che terminassero e dissi: «Portneil 531».

«Portneil 531» disse Eric. Almeno, credevo fosse Eric.

«Sì?» dissi io.

«Sì cosa?»

«Sì, risponde Portneil 531.»

«Ma credevo che io parlassi dal Portneil 531.»

«È qui, invece, il 531. Chi sei? Sei tu?»

«Sono io. Parlo con il 531?»

«Sì» urlai.

«E chi parla?»

«Frank Cauldhame» risposi, cercando di mantenere la calma. «Chi parla?»

«Frank Cauldhame» disse Eric. Mi guardai attorno, su e giù dalle scale, ma non vidi traccia di mio padre.

«Ciao, Eric» dissi allegramente. Decisi di non farlo arrabbiare, qualunque cosa fosse accaduta. Piuttosto avrei messo giù il telefono, evitando in ogni caso di dire la cosa sbagliata. Non avrei lasciato che mio fratello riducesse in briciole un’altra cabina telefonica.

«Ti ho appena detto che mi chiamo Frank. Perché mi chiami “Eric”?» disse mio fratello.

«Dai, Eric, ho riconosciuto la voce.»

«Sono Frank. Smettila di chiamarmi Eric.»

«Va bene, va bene. Allora ti chiamo Frank.»

«Insomma, chi sei tu?»

Ci pensai per un attimo. «Eric» provai a dire.

«Ma hai appena detto che ti chiami Frank.»

«D’accordo» sospirai, appoggiandomi al muro con una mano e pensando a ciò che avrei potuto dire. «Era… era solo uno scherzo. Oh Dio, non lo so.» Corrugai la fronte in attesa che Eric dicesse qualcosa.

«Comunque, Eric» disse Eric «che novità ci sono?»

«Oh, niente d’importante. Ero al pub, ieri sera. Hai chiamato?»

«Io? No.»

«Oh. Papà dice che qualcuno ha chiamato. Ho pensato che potevi essere tu.»

«E perché dovrei chiamare?»

«Be’, non lo so.» Diedi un’alzata di spalle. «Per la stessa ragione per cui stai chiamando adesso. Che so…»

«Perché credi che abbia chiamato, ora?»

«Non lo so.»

«Cristo. Non sai perché ho chiamato, non sai come ti chiami, sbagli anche il mio nome. Non ci stai molto con la testa, vero?»

«Oh, Gesù» dissi, rivolgendomi più a me che a lui. Sentivo che la conversazione stava prendendo una piega sbagliata.

«Non vuoi chiedermi come sto?»

«Sì, sì. Come stai?» dissi.

«Malissimo. E tu?»

«Così. Perché stai malissimo?»

«Non ti interessa.»

«Certo che m’interessa. Cosa c’è che non va?»

«Niente che ti possa interessare. Chiedimi qualcos’altro. Com’è il tempo, dove sono, o qualche altra cosa. Lo so che non ti interessa come mi sento.»

«Ma certo che m’interessa. Sei mio fratello. È naturale che m’interessa» protestai io. In quel momento sentii la porta della cucina che si apriva, e dopo qualche istante apparve mio padre in fondo alle scale. Si appoggiò alla sfera di legno che sta alla fine della ringhiera e rimase a guardarmi fisso. Sollevò la testa e la inclinò da un lato per sentire meglio. Persi qualche pezzo della risposta di Eric. Continuò dicendo: «…importa come mi sento, ogni volta che telefono è lo stesso. Dove sono, ecco l’unica cosa che ti interessa. Non vuoi sapere dove sto con la testa, vuoi sapere solo dove si trova il mio corpo. Non so perché me la prendo, non lo so. Potrei anche non prendermi la briga di chiamare».

«Mmmh. Bene. Eccoti qua» dissi, guardando mio padre con un sorriso. Lui non si mosse e non disse una parola.

«Capisci quello che voglio dire? Sei buono solo a fare: “Mmmh. Bene. Eccoti qua”. Grazie al cazzo. Questo dimostra tutto il tuo interesse nei miei confronti.»

«Ti sbagli. È esattamente il contrario» gli dissi, poi allontanai appena il ricevitore dalla bocca e gridai a mio padre: «È Jamie, papà

«…Non so neanche perché faccio lo sforzo…» vaneggiò Eric nella cornetta, apparentemente dimentico di ciò che avevo appena detto. Mio padre fece finta di niente. Rimase nella stessa posizione di prima, sempre con le orecchie tese.

Mi leccai le labbra e dissi: «Be’, Jamie…»

«Che? Vedi? Non hai ancora imparato il mio nome. Ma perché fai così? È quello che vorrei sapere. Allora? Perché? Lui non mi vuole bene. E invece tu me ne vuoi, vero?» La sua voce divenne sempre più debole e distorta; forse aveva scostato la bocca dalla cornetta. Pareva che stesse parlando con qualcuno accanto a lui nella cabina.

«Sì, Jamie, certo.» Feci un sorrisetto a mio padre, annuii e mi misi una mano sotto l’ascella opposta, cercando di apparire il più possibile a mio agio.