6. Le Terre del Teschio
Quando Agnes Cauldhame arrivò, incinta di otto mesi e mezzo, sulla sua BSA 500, col manubrio inclinato e l’occhio di Sauron dipinto in rosso sul serbatoio, mio padre — c’era da aspettarselo — non fece certo i salti di gioia. Dopotutto lei lo aveva abbandonato quasi immediatamente dopo la mia nascita, lasciandogli una creatura urlante da accudire. Sparire senza farsi sentire per tre anni, né una telefonata né una cartolina, poi tornare sulle ali del vento, farsi il sentiero e il ponte portandosi in pancia il bambino di qualcun altro e aspettarsi di essere accolta in casa, sfamata, accudita e anche assistita durante il parto da mio padre… Insomma, era pretendere troppo.
Avevo solo tre anni all’epoca, quindi non mi ricordo granché. A dire il vero non mi ricordo un bel niente, cosa che vale, del resto, per tutto quanto era avvenuto prima di quella data. E comunque, in quel caso, avevo le mie buone ragioni. Da quel poco che ho potuto mettere insieme quando mio padre decise di farsi scappare qualche informazione, mi è stato possibile farmi un’idea accurata dei fatti accaduti. Ogni tanto la signora Clamp se ne veniva con qualche dettaglio in più, anche se probabilmente i suoi racconti erano ancora meno affidabili di quelli di mio padre.
Eric non c’era a quel tempo, stava a Belfast con gli Stove.
Agnes era abbronzata, imponente, tutta perline e camicioni sgargianti, decisa a partorire nella posizione del loto (la stessa posizione in cui il bambino era stato concepito, diceva) e a salmodiare “Om” durante il fatidico momento. Rifiutava di rispondere a mio padre che le chiedeva dove fosse stata in quei tre anni e con chi. Gli intimava di non essere possessivo nei riguardi di lei e del suo corpo. Stava bene e aveva un bambino in grembo, era l’unica cosa che a mio padre spettava sapere.
Agnes si acquattò in quella che un tempo era la loro camera da letto, nonostante le proteste di mio padre. Se lui fosse stato segretamente felice di averla di nuovo con sé, e se gli fosse venuta in mente l’idea stupida che lei sarebbe potuta restare con lui, questo non posso dirlo. Non credo che mio padre sia una persona tanto forte, nonostante quell’aria di sicurezza che riesce ad assumere quando vuole far colpo su qualcuno. Ho il sospetto che la forte determinazione di mia madre sarebbe bastata a dominarlo. In ogni caso, lei aveva ottenuto quello che voleva, e aveva trascorso un paio di settimane in grande stile durante quell’estate inebriante di pace e amore eccetera.
Mio padre all’epoca aveva ancora pieno uso di tutt’e due le gambe, e doveva servirsene per correre su e giù dalla cucina o dal salotto fino alla camera da letto e ritorno ogni volta che Agnes faceva tintinnare le campanelle cucite sull’orlo dei jeans a zampa d’elefante sistemati a mo’ di drappo su una sedia accanto al letto. E come se non bastasse, mio padre doveva occuparsi di me. Io trotterellavo da tutte le parti, a quel tempo, e combinavo pasticci proprio come tutti gli altri bambini di tre anni sani e normali.
Come ho già detto, non mi ricordo niente, ma mi hanno raccontato che provavo un certo gusto a infastidire il Vecchio Saul, l’anziano e zoppo bulldog bianco che mio padre teneva — così mi è stato riferito — perché era bruttissimo e perché non gli piacevano le donne. Al Vecchio Saul non piacevano neppure le motociclette, ed era uscito di testa all’arrivo di Agnes, si era messo ad abbaiare e l’aveva assalita. Agnes l’aveva spinto a calci per tutto il giardino, fino a farlo guaire e correre via fino alle dune. Era riapparso solo quando si era sentito di nuovo al sicuro, con lei confinata a letto. La signora Clamp sostiene che mio padre si sarebbe dovuto sbarazzare della bestia anni prima che tutte quelle cose accadessero, ma io credo che il vecchio cagnone puzzolente di pesce, dalla mascella umida e dagli occhi gialli e cisposi finiva per risultare simpatico proprio perché era ripugnante.
Agnes entrò in travaglio con gran tempismo all’ora di pranzo di una giornata calma e afosa. Sudava e salmodiava tra sé e sé intanto che mio padre metteva a bollire acqua e altre cose e la signora Clamp le tamponava la fronte raccontandole di tutte le donne morte di parto che aveva conosciuto. Io giocavo fuori, correndo da una parte e dall’altra in calzoncini, molto felice — suppongo — di tutta la faccenda della gravidanza perché mi dava libertà di fare il comodo mio in casa e in giardino, senza la supervisione di mio padre.
Cosa avessi fatto io per infastidire il Vecchio Saul, se fosse il caldo la causa della sua stizza spropositata, se davvero Agnes l’avesse colpito alla testa quand’era arrivata, come dice la signora Clamp, di tutto questo non so niente. Ma quella creaturina sudicia e abbronzata dalla testa arruffata che se ne andava in giro trotterellando da tutte le parti, cioè io, avrebbe potuto benissimo essere implicata in qualche malefatta ai danni del cane.
Accadde tutto in giardino, su una zolla di terra che poi diventò un orto, quando mio padre si infervorò col cibo naturista. Mancava circa un’ora al parto. Mia madre ansimava e brontolava, spingeva e sospirava, assistita sia da mio padre che dalla signora Clamp, quando tutti e tre (o almeno due di loro, visto che Agnes aveva già di che preoccuparsi) udirono un abbaiare concitato e un unico urlo acuto e tremendo.
Mio padre corse alla finestra, guardò giù verso il giardino, poi gridò e scappò via dalla stanza, lasciando la signora Clamp sola e con gli occhi fuori dalle orbite.
Si precipitò in giardino e mi tirò su. Tornò di corsa in casa, chiamò la signora Clamp a urla, poi mi appoggiò sul tavolo di cucina e usò degli strofinacci per fermare il sangue alla meno peggio. La signora Clamp, ancora ignara e piuttosto in collera, comparve con la medicina che lui aveva chiesto, poi quasi svenne quando vide il casino che avevo in mezzo alle gambe. Mio padre prese la roba e le disse di tornare su da mia madre.
Un’ora dopo ripresi i sensi e mi ritrovai a letto esangue e con lo stomaco imbottito di farmaci, mentre mio padre era uscito col fucile alla ricerca del Vecchio Saul.
Lo trovò dopo un paio di minuti, prima che il cane avesse la possibilità di lasciare propriamente la casa. Se ne stava acquattato vicino la porta della cantina, all’ombra fredda che c’è giù dalle scale. Guaì e rabbrividì, col mio sangue giovane mescolato sulle mascelle bavose alla saliva e al denso muco oculare, quindi mostrò i denti e rivolse uno sguardo incerto e implorante verso mio padre, che lo sollevò in aria e lo strangolò.
Non è stato facile farmi raccontare tutto questo da mio padre. Secondo lui, poi, fu proprio nell’istante in cui toglieva al cane l’ultimo soffio vitale che sentì un altro urlo, questa volta proveniente dalla casa, dal piano di sopra, il primo grido del bambino che avrebbe poi portato il nome di Paul. Quali pensieri ingarbugliati attraversassero la mente di mio padre a quel tempo per fargli scegliere un nome del genere per il bambino, neanche me l’immagino. Comunque quello fu il nome che Angus scelse per il suo nuovo figlio. Dovette sceglierlo lui perché Agnes non si fermò molto. Rimase a casa un paio di giorni per riprendersi, manifestò shock e orrore per quello che era successo a me, poi inforcò la moto e se ne andò a tutta birra. Mio padre cercò di fermarla parandosi davanti a lei, ma lei lo investì rompendogli malamente una gamba, sul sentiero che porta al ponte.
E così la signora Clamp si ritrovò a prendersi cura di mìo padre mentre lui la esortava a prendersi cura di me. Rifiutò ancora una volta che l’anziana donna chiamasse un dottore, e si sistemò la gamba da solo, anche se non proprio in modo perfetto. Ecco perché zoppica. La signora Clamp dovette portare il neonato all’infermeria locale il giorno dopo la partenza della madre. Mio padre protestò, ma la signora Clamp osservò che era già abbastanza gravoso occuparsi di due invalidi senza avere tra i piedi un bambino con bisogno costante di cure.
Fu questa l’ultima visita di mia madre sull’isola. Aveva lasciato lì un morto, due invalidi a vita e un neonato. Niente male per un paio di settimane di una monotona estate di amore psichedelico, pace e carineria generale.