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Il Vecchio Saul finì bruciato sulla collinetta dietro alla casa, nel posto che poi avrei chiamato le “Terre del Teschio”. Mio padre sostiene di aver squartato la bestia e di avergli trovato i miei minuscoli genitali nello stomaco, ma non mi è mai stato possibile farmi dire che fine abbiano fatto.

Paul, naturalmente, era Saul. Quel nemico era stato sufficientemente astuto — dev’essere andata proprio così — da trasferirsi nel corpo del bambino. Ecco perché mio padre aveva scelto quel nome per il mio nuovo fratellino. È stata proprio una fortuna che io l’abbia localizzato in tempo e abbia agito quand’era ancora in tenera età, altrimenti Dio solo sa che tipo di individuo sarebbe potuto diventare, posseduto com’era dall’anima di Saul. Ma io, con l’aiuto della fortuna e del temporale, l’ho messo in contatto con la Bomba, e questo l’ha sistemato per sempre.

Comunque parecchie bestiole — gerbilli, topolini bianchi e criceti — dovettero morire sprofondate nel fango per permettermi di recuperare il teschio del Vecchio Saul. Catapultavo gli animaletti nel fango, dall’altra parte del torrente, in modo che mi fosse possibile fare anche i funerali. Mio padre non mi avrebbe mai permesso di scavare una fossa per quelle creature, per questo dovevano andarsene in quel modo ingrato, finendo i loro giorni agghindate con qualche fronzolo tirato via dal volano. Compravo abitualmente le palline per il volano in paese, nel negozio di sport e giocattoli, poi tiravo via la parte di gomma, strizzavo il porcellino d’India di turno (a dire il vero lo feci una volta soltanto, giusto per principio, e non diventò un’abitudine perché i porcellini d’India erano troppo cari e anche un po’ troppo grossi) e lo ficcavo a forza su per l’imbuto di plastica finché questo non si adattava attorno al corpicino come un vestito. Così gli animaletti erano pronti al volo; allora li fiondavo a parabola sopra l’acqua e il fango regalandoli a una morte soffocante. Poi li seppellivo, usando come bare le grosse scatole di fiammiferi che tenevamo vicino al fornello e che io da anni conservavo e adoperavo come contenitori per soldatini, per farci modellini di case e così via.

Dissi a mio padre che stavo cercando di spedirli verso la terraferma, e che quelli che avevo dovuto seppellire — quelli che erano caduti troppo vicino — erano vittime della ricerca scientifica, ma dubito che veramente mi servisse una scusa come questa. Mio padre non sembrava preoccuparsi molto della sofferenza delle forme di vita inferiori, pur essendo un ex fricchettone, ma forse era per via dei suoi trascorsi con la medicina.

Tenevo il conto, naturalmente, e quindi so che ci sono voluti non meno di trentasette esperimenti di lancio, per così dire, prima che la mia fidata cazzuola a manico lungo, nel mordicchiare le Terre del Teschio, andasse a colpire qualcosa di più duro del terreno sabbioso. Alla fine trovai i resti del cane.

Sarebbe stato bello se al momento della riesumazione del teschio fossero passati dieci anni dalla morte dell’animale, ma in effetti era passato solo qualche mese. Comunque, l’Anno del Teschio finì col nemico in mio potere: il teschio, che spuntava dal suolo come un grosso dente cariato, fu rinvenuto in una notte opportunamente scura e tempestosa grazie alla luce della mia torcia e alla cazzuola Colpo Duro, mentre mio padre dormiva, cosa che anch’io avrei dovuto fare, e il cielo era squassato da tuoni, pioggia e burrasca.

Tremavo mentre portavo la cosa al Bunker, in preda alla paura scatenata dalla mia immaginazione paranoica, ma alla fine riuscii a farcela. Portai là il teschio marcescente, lo ripulii e ci misi una candela dentro con tanto di accessori magici, poi me ne tornai, dopo aver preso tanto freddo e tanta pioggia, nel mio lettuccio caldo e confortevole.

Tutto considerato, mi sembra di aver agito per il meglio, di aver risolto i miei problemi nel miglior modo possibile. Il mio nemico è morto due volte, ed è ancora in mio potere. Non sono propriamente un uomo, e nulla può cambiare questa cosa. Ma io sono io, e questo mi basta come risarcimento.

Questa storia dei cani in fiamme è veramente insensata.

7. Space Invaders

Prima di rendermi conto che gli uccelli fossero miei alleati occasionali, mi capitava spesso di fargli cose non proprio carine: gli sparavo, li agganciavo all’amo, li intrappolavo nella sabbia legandoli a un bastoncino durante la bassa marea, sistemavo bombe con detonatore elettrico sotto i loro nidi, e via dicendo.

Il mio gioco preferito consisteva nel catturarne due insieme con l’esca e la rete per poi legarli l’uno all’altro. Solitamente si trattava di gabbiani, e io li legavo zampa a zampa con del grosso filo da pesca di nylon arancione, poi mi sedevo in cima a una duna e guardavo. Certe volte prendevo un gabbiano e un corvo, e anche se non erano della stessa specie capivano immediatamente che non avrebbero potuto volare come al solito. Il filo, a dire il vero, era lungo abbastanza per consentire il volo, ma i due uccelli finivano presto per mettersi a combattere, dopo qualche acrobazia goffa e ridicola.

Se uno dei due moriva, il sopravvissuto — che spesso rimaneva ferito — non se la cavava certo meglio, attaccato com’era a un pesante cadavere invece che a un avversario vivo. Ho visto un paio di volte uccelli talmente determinati da beccare la zampetta dell’avversario sconfitto fino a reciderla, ma difficilmente ci riuscivano, e comunque la maggior parte neanche ci pensava, e così venivano catturati dai topi durante la notte.

Facevo anche altri giochi, ma quello mi dava sempre una gran soddisfazione, era una delle mie invenzioni più mature; un gioco simbolico, per così dire, e contornato da un bel miscuglio di insensibilità e ironia.

* * *

Uno degli uccelli cagò su Gravel mentre io pedalavo su per il sentiero verso il paese un giovedì mattina. Mi fermai, lanciai un’occhiataccia ai gabbiani che svolazzavano e ai tordi, poi presi un po’ d’erba e la strofinai su quel casino giallastro per pulire il parafango anteriore. Era una giornata soleggiata e luminosa, animata da una leggera brezza. Le previsioni per i giorni successivi erano buone, e io speravo che il bel tempo tenesse fino all’arrivo di Eric.

Incontrai Jamie per pranzo nel salottino del Cauldhame Arms, e ci accomodammo davanti a uno schermo tv per fare una partita a un videogioco.

«Se è tanto fuori di testa non capisco perché non l’hanno ancora preso» disse Jamie.

«Te l’ho detto, è pazzo, ma è molto furbo. Non è stupido. È sempre stato molto intelligente, da quando era piccolo. Ha imparato a leggere presto, facendo esclamare a tutti i parenti, zii e zie: “Oh, come crescono in fretta di questi tempi!” e cose del genere, da prima che io nascessi.»

«In ogni caso, è pazzo.»

«È quello che dicono, ma non so se è vero.»

«Che mi dici dei cani? E degli insetti?»

«Va bene, potrebbe sembrare una cosa da pazzi, lo ammetto, ma a volte penso che abbia in mente qualcosa, forse non è del tutto matto. Forse è solo che non ne può più di comportarsi come una persona normale e ha deciso di fare stranezze, ed è stato rinchiuso perché si è spinto troppo oltre.»

«E lui reagisce facendo il matto» disse Jamie con una smorfia, tracannandosi la birra mentre io annientavo sullo schermo una sfilza di astronavi variopinte che cercavano di sfuggire da tutte le parti. Mi venne da ridere. «Sì, se è così che la pensi. Oh, non lo so. Forse è matto davvero. Forse anch’io non ci sto con la testa. Forse tutti quanti. O almeno tutta la mia famiglia.»

«Adesso sì che ragioni.»

Lo guardai per un istante, poi sorrisi. «Mi capita, a volte. Mio padre è un eccentrico… Credo di avere anch’io qualche stranezza.» Scrollai le spalle, tornando a concentrarmi sulla battaglia spaziale. «Ma non me ne frega niente. Ci sono un sacco di persone più matte di me, qua attorno.»