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Jamie rimase muto per un po’ mentre io mi facevo schermate e schermate di flotte rotanti e sibilanti. Alla fine la mia fortuna si esaurì e mi fecero fuori. Presi il mio boccale, e Jamie si mise in posizione per distruggere qualche pezzo dello sfarzoso schieramento. Gli guardai la testa mentre si accingeva a giocare. Cominciava a perdere i capelli, anche se sapevo che aveva solo ventitré anni. Mi faceva pensare a un pupazzo, con quella testa sproporzionata e quelle braccine tarchiate e quelle gambe che si dimenavano nello sforzo di schiacciare il pulsante per fare fuoco e controllare con piccoli scatti i comandi di posizione.

«È vero» disse dopo un po’, sempre proteso all’attacco delle navi in arrivo. «E molti di loro sono politici, presidenti e cose del genere.»

«Che?» dissi io, chiedendomi a cosa si stesse riferendo.

«Quelli ancora più pazzi. Molti sono a capo di nazioni, religioni ed eserciti. I veri pazzi.»

«Già, suppongo di sì» dissi soprappensiero, sempre seguendo su e giù la battaglia sullo schermo. «O forse sono gli unici che ragionano. Dopo tutto sono loro ad avere tutto il potere e la ricchezza. Sono loro che decidono quello che la gente deve fare, se deve morire per loro o lavorare per loro o procurargli potere o proteggerli o pagargli le tasse o comprargli i giocattoli, e sono loro che sopravviveranno a un’altra grande guerra, nei bunker e nel sottosuolo. Dunque, visto che le cose stanno così, chi è che gli va a dire che sono pazzi perché non fanno le cose nel modo in cui Pinco Pallino pensa che andrebbero fatte? Se la pensassero come Pinco Pallino, sarebbero direttamente Pinco Pallino, e qualcun altro si divertirebbe al posto loro.»

«La sopravvivenza dei più forti.»

«Già.»

«La soprav…» Jamie prese fiato energicamente e tirò i comandi con una forza tale che quasi cadde dallo sgabello, ma riuscì a schivare le saette gialle dardeggianti che avevano costretto i suoi affarini in un angolo dello schermo «…vivenza dei più stronzi.» Mi guardò e mi fece un sogghigno veloce prima di curvarsi nuovamente sui comandi. Io continuai a bere, facendo sì con la testa.

«Se preferisci. Se sopravvivono i più stronzi, allora diamoci sotto.»

«Noi siamo tutti della schiatta di Pinco Pallino» disse Jamie.

«Sì, tutti quanti. L’intera specie. Se veramente diventiamo malvagi e insensibili al punto da usare quelle splendide bombe H e al neutrone l’uno sull’altro, forse è meglio se ci eliminiamo da soli prima di raggiungere lo spazio e cominciare a fare cose orribili alle altre razze esistenti.»

«Vuoi dire che saremmo noi gli “Space Invaders”?»

«Sì» dissi io ridendo, e mi dondolai sullo sgabello. «È così. Siamo proprio noi!» Risi ancora e puntai il dito sullo schermo nel punto in cui passava una formazione di cosi svolazzanti rossi e verdi. In quel momento uno di essi, staccandosi dal gruppo principale, si tuffò verso il basso e fece fuoco contro lo schieramento di Jamie. Mancò il bersaglio, ma lo abbrancò con un’aletta verde fino a farlo scomparire dallo schermo, e così la flotta di Jamie esplose con un bagliore luminescente di rosso e giallo.

«Merda» disse, rimettendosi comodo. Scosse la testa.

Mi misi in posizione e aspettai che apparisse la mia flotta.

Con una leggera ubriacatura in corpo dovuta alle tre birre, me ne tornai all’isola fischiettando. Mi piacevano un sacco le chiacchierate con Jamie all’ora di pranzo. Qualche volta parliamo anche il sabato sera, ma non si sente niente quando c’è la musica dal vivo, e poi mi sbronzo troppo, e anche se riesco a parlare la sbornia mi impedisce di ricordarmi quello che dico. Il che, a pensarci bene, significa la stessa cosa, a giudicare dal modo in cui le persone che di solito si comportano in modo educato si trasformano in idioti balbettanti e incivili e in enfatici predicatori una volta che le molecole di alcol nel sangue superano in quantità i neuroni o non so cosa. Fortunatamente uno se ne accorge solo se resta sobrio, quindi la soluzione è ovvia quanto piacevole, almeno in quel momento.

Mio padre stava dormendo su una sdraio in giardino quando tornai a casa. Lasciai la bici nella rimessa e rimasi a guardarlo da lì per un istante, in una posizione tale che se in quel preciso momento si fosse svegliato avrebbe creduto che io stessi giusto allora chiudendo la porta. Aveva la testa leggermente inclinata dalla mia parte, e la bocca era semiaperta. Portava gli occhiali scuri, ma attraverso le lenti si vedevano lo stesso gli occhi chiusi.

Avevo da pisciare, così non restai a guardarlo a lungo. Non che avessi qualche ragione particolare per guardarlo; mi piaceva e basta. Mi faceva bene sapere che mi fosse possibile vederlo senza che lui vedesse me, e che io mi rendessi perfettamente conto di ogni cosa mentre lui no.

Entrai in casa.

Trascorsi tutto il lunedì, dopo un rapido controllo dei Pali, a fare qualche riparazione e qualche miglioria alla Fabbrica, lavorando l’intero pomeriggio fino a che gli occhi non mi fecero male e mio padre non mi chiamò giù per la cena.

La sera venne a piovere, quindi restai a casa a guardare la televisione. Andai a letto presto. Eric non si fece sentire.

Dopo aver eliminato almeno metà della birra che avevo bevuto al Cauldhame, salii a dare un’altra occhiata alla Fabbrica. Mi arrampicai nella soffitta inondata dal calore e dalla luce del sole e dall’odore di vecchi libri interessanti, e decisi di rimettere un po’ in ordine il posto.

Sistemai nelle scatole i vecchi giocattoli, riposi qualche rotolo di moquette e di carta da parati nel posto da dove erano caduti, riappesi un paio di cartine geografiche sulla parete inclinata del sottotetto di legno, tirai via un po’ di attrezzi e arnesi che mi erano serviti per riparare la Fabbrica e mi occupai di quelle sue sezioni che necessitavano di rifornimenti.

Trovai delle cose molto interessanti durante questo lavoro: un astrolabio fatto in casa, una scatola contenente le parti pieghevoli di un modellino in scala delle mura di Bisanzio, i resti della mia collezione di isolatori per i pali del telegrafo e qualche vecchia scartoffia di quando mio padre mi insegnava il francese. Sfogliando quelle pagine, non vi trovai neppure una delle sue ovvie bugie. Non mi aveva insegnato a dire volgarità invece di “mi scusi” o di “mi può indicare la strada per la stazione, per favore?”, anche se a mio avviso la tentazione dev’essere stata forte.

Finii di riordinare la soffitta, starnutendo più volte per via della polvere luminescente che si spandeva nello spazio dorato. Diedi un’altra occhiata alla Fabbrica riassettata, giusto perché mi piace guardarla e mi piace giocherellarci e toccarla e sfiorare i suoi piccoli livelli e le porticine e i congegni. Alla fine mi costrinsi ad andare via, pensando in cuor mio che presto avrei avuto occasione di usarla nel modo più giusto. Avrei catturato una vespa quel pomeriggio stesso e avrei messo in funzione la Fabbrica il giorno successivo. Volevo interrogare ancora una volta la Fabbrica prima che Eric arrivasse; volevo avere un’idea più precisa di quello che stava per accadere.

C’era qualche rischio, ovviamente, a chiedere la stessa cosa due volte, ma pensai che le circostanze eccezionali lo rendessero necessario, e la Fabbrica era mia, dopotutto.

Presi la vespa senza alcuna difficoltà. Ci entrò praticamente da sola nel barattolo da cerimonia che da sempre adopero per conservare le prede per la Fabbrica. Presi il barattolo, lo sigillai col coperchio bucherellato e lo misi via insieme a qualche foglia e una manciata di bucce d’arancia, lasciandolo all’ombra dell’argine, quel pomeriggio, intanto che io mi dedicavo alla costruzione di un impianto di dighe.

Lavorai e sudai alla luce del tardo pomeriggio mentre mio padre faceva qualche rattoppo di verniciatura sul retro della casa e la vespa girava in tondo chiusa dentro al barattolo, con le antenne che oscillavano.