Ero a metà con la diga — il momento più delicato — quando mi venne l’idea che sarebbe stato divertente farla anche esplodere, così lasciai l’acqua a defluire e mi feci il sentiero in senso inverso per andare a prendere la Borsa da Guerra nella rimessa. Tornai indietro con la sacca e vi tirai fuori la bomba più piccola tra quelle predisposte alla detonazione elettrica. La collegai ai fili della torcia elettrica, con le punte scoperte che si intravedevano dal foro che avevo fatto col trapano nella copertura metallica, e avvolsi la bomba in un paio di buste di plastica. Conficcai la bomba sul fondo della diga principale, facendo passare i fili da dietro, fino al punto in cui avevo lasciato la vespa ad affannarsi nel suo barattolo. Coprii i fili, in modo da camuffarli col resto, poi tornai a costruire le dighe.
La barriera divenne bella grossa e piuttosto complicata, con ben due villaggi ai suoi piedi, uno vicino a due piccole dighe e uno sottocorrente rispetto all’ultima diga. C’erano dei ponti corredati di stradine, un castello con quattro torri e due tunnel stradali. Subito prima dell’ora del tè tirai fuori l’ultimo filo dalla torcia e portai il barattolo con la vespa in cima alla duna più vicina.
Riuscivo a vedere mio padre, sempre intento a dipingere le imposte della finestra del salotto. Mi ricordo ancora i disegni che c’erano sulla facciata della casa, dalla parte del mare. Erano sbiaditi già allora, ma si potevano considerare opere minori di una collezione di arte flippata, da quello che mi ricordo: grandi spirali vorticose e simboli induisti che facevano capolino sulla facciata come tatuaggi in technicolor, avvolgendosi attorno alle finestre e seguendo l’arcata della porta. Un cimelio di quando mio padre era un hippy. Sono rovinati e scrostati, adesso, consunti dal vento e dal mare, dalla pioggia e dal sole. Se ne distingue appena la sagoma, insieme a qualche mostruosa macchia del colore di origine. Sembra pelle screpolata.
Aprii la torcia, inserii le batterie, le sistemai per bene e schiacciai il bottone di accensione. La corrente passò in serie, con la batteria da nove volt fissata col nastro adesivo, attraversò i fili che partivano dal foro in cui prima c’era la lampadina e giunsero nell’involucro della bomba. Al centro la lana d’acciaio guizzò in un bagliore opaco, poi diventò più luminosa e cominciò a sciogliersi, mentre la mistura di cristalli bianchi esplodeva facendo saltare via il metallo — a cui avevo dato la giusta curvatura solo dopo una perdita immane di sudore e di tempo — come fosse carta.
Buuum! La parte frontale della diga più grande saltò in aria e schizzò da tutte le parti. Un miscuglio confuso di gas e vapore, acqua e sabbia, si levò in aria e ricadde a spruzzi. Un bel rumore ovattato. Nel fondo dei pantaloni, subito prima di udire il tonfo, avevo sentito un tremolio intenso e localizzato.
La sabbia scivolò nell’aria, precipitò, schizzò nell’acqua e ricadde pesantemente a mucchietti, inzaccherando le casette e i sentieri. L’acqua, ormai libera di defluire, si abbatté contro i muretti di sabbia e defluì in basso, rosicchiandosi gli orli della breccia e sputando una melma brunastra sopra il primo villaggio, poi si fece strada e andò ad ammassarsi dietro la duna seguente, tornò indietro, distrusse casette di sabbia, ribaltò di fianco il castello dalle torri già disfatte. Il supporto del ponte crollò, la parte di legno cedette, affondando da un lato, poi la diga cominciò a inondarsi, e nel giro di pochissimo fu completamente sommersa, divorata dalla piena che ancora si sprigionava dalla prima diga, con l’acqua che spingeva da cinquanta metri e passa in balia della corrente.
Lasciai il barattolo e scesi dalla duna esultante, mentre l’acqua si riversava a ondate sulla superficie zigrinata del letto del fiume, colpendo le case, seguendo le strade, correndo per i tunnel, finché non andò a investire l’ultima diga, che fu sopraffatta in un batter d’occhio. Infine l’onda andò a schiantarsi contro le case rimanenti, raggnippate nel secondo villaggio. Le dighe erano ridotte in poltiglia, le case erano finite nell’acqua, i ponti e i tunnel stavano precipitando e gli argini crollavano da tutte le parti. Un meraviglioso senso di eccitazione mi investì lo stomaco come un’onda e mi prese alla gola, facendomi fremere al pensiero della distruzione per acqua che avevo scatenato.
Guardai i fili elettrici arrotolarsi nell’acqua, tutti raggnippati da un lato, poi mi voltai verso la parte centrale dell’inondazione, che si dirigeva velocemente verso il mare passando sopra alla sabbia per lungo tempo secca. Mi sedetti di fronte a dove prima c’era il primo villaggio, e dove ora fluttuavano creste d’acqua fangosa in lento avvicinamento, e aspettai che la piena calasse, con le gambe incrociate, i gomiti sulle ginocchia e la testa tra le mani. Provai calore e gioia, e anche un po’ di fame.
Alla fine, quando il torrente tornò pressoché normale e non rimase più nulla delle mie ore di lavoro, individuai ciò che stavo cercando: il relitto nero e argento della bomba, che spuntava sventrato e grinzoso dalla sabbia, sottocorrente rispetto alla diga che aveva distrutto. Non mi tolsi gli scarponi, ma avanzai sulle mani finché non raggiunsi il bel mezzo del torrente, mentre i piedi rimasero là dov’erano, puntati contro l’argine asciutto. Raccolsi i resti della bomba dal letto del fiumiciattolo, afferrai quell’oggetto frastagliato con la bocca, poi tornai indietro, sempre carponi, finché non mi fu possibile riprendere la posizione e rialzarmi.
Asciugai il pezzo di metallo appiattito con uno straccio della Borsa da Guerra, misi la bomba nella sacca, poi raccolsi il barattolo con la vespa e tornai a casa per il tè, scavalcando il torrente proprio nel punto più alto da cui avevo fatto defluire le acque.
La nostra vita è tutta fatta di simboli. Ogni cosa che facciamo è parte di un disegno dove abbiamo comunque voce in capitolo. I forti stabiliscono i propri percorsi e influenzano quelli degli altri, i deboli ce li hanno già segnati. I deboli e gli sfortunati. E gli stupidi. La Fabbrica della Vespa è parte del disegno perché è parte della vita e — a maggior ragione — della morte. È complicata, proprio come la vita, e complicati sono tutti i pezzi. Il motivo per cui la Fabbrica sa rispondere alle domande è che ogni domanda è un inizio che cerca una fine, e la Fabbrica riguarda la Fine — la morte, nient’altro. Tenetevi le vostre viscere e i vostri bastoncini, i vostri dadi e i libri, il volo degli uccelli e le voci e i pendolini e tutte quelle altre stronzate; io ho la Fabbrica, e risponde al presente e al futuro. Non al passato.
Mi misi a letto, quella notte, sapendo che la Fabbrica era bell’e pronta, aspettava solo quella vespa che annaspava e girava in tondo nel barattolo accanto al mio letto. Pensai alla Fabbrica, su in soffitta, e aspettai che squillasse il telefono.
La Fabbrica della Vespa è bella, letale, perfetta. Mi avrebbe dato qualche indizio su ciò che stava per succedere, mi avrebbe dato una mano a capire cosa fare, e dopo che l’avessi consultata, avrei potuto provare a contattare Eric attraverso il teschio del Vecchio Saul. È mio fratello, dopo tutto, anche se solo per metà, e siamo due uomini, anche se io lo sono soltanto per metà. A un livello profondo, noi due ci capiamo, anche se lui è pazzo e io no. Abbiamo anche un’altra cosa in comune, mi è venuta in mente solo da poco ma potrebbe tornarmi utile in futuro: tutt’e due abbiamo ucciso, e l’abbiamo fatto usando la testa.
Mi venne in mente allora, ma lo sapevo anche prima, che gli uomini sono fatti proprio per quello scopo. Entrambi i sessi sanno fare una sola cosa molto bene: le donne mettono al mondo, gli uomini uccidono. Noi — mi considero un uomo per carica onoraria — siamo il sesso forte. Noi penetriamo, ci facciamo strada, spingiamo e deprediamo. Il fatto che io sia capace solo di fare qualcosa di analogo a queste azioni desunte dalla terminologia sessuale non mi scoraggia affatto. Lo sento nelle ossa, nei miei geni non castrati. Per Eric deve valere tutto questo.