Si fecero le undici, poi arrivò la mezzanotte e il segnale orario, allora spensi la radio e mi misi a dormire.
8. La Fabbrica della Vespa
Il mattino dopo, mentre mio padre dormiva e la luce fredda dell’alba filtrava tra la fitta cortina di nubi, mi alzai in silenzio, mi lavai e mi rasai con cura, ritornai nella mia stanza, mi vestii lentamente, poi presi il barattolo con la vespa mezza addormentata e lo portai in soffitta, dove la Fabbrica mi stava aspettando.
Posai il barattolo sul piccolo altare sotto la finestra e feci gli ultimi preparativi di cui necessitava la Fabbrica. Dopodiché presi un po’ di gel detergente dal vasetto accanto all’altare e me lo strofinai bene sulle mani. Diedi un’occhiata alle Tavole delle maree e delle distanze, un libricino rosso che tenevo dall’altra parte dell’altare, per controllare l’orario dell’alta marea. Sistemai le due candeline delle vespe posizionandole come fossero le lancette di un orologio che segnava l’ora dell’alta marea sulla facciata della Fabbrica, poi svitai il coperchio del barattolo ed estrassi le foglie e le bucce d’arancia, lasciandoci dentro solo la vespa.
Poggiai il barattolo sull’altare, che era agghindato con diversi oggetti di potere: il teschio del serpente che aveva ucciso Blyth (catturato e tagliato in due da suo padre con una vanga da giardinaggio; l’avevo recuperato dall’erba nascondendone la parte anteriore nella sabbia prima che Diggs se lo portasse via come prova per le indagini), un frammento della bomba che aveva dilaniato Paul (il pezzo più piccolo che avevo trovato; ce n’erano un sacco), un brandello di tenda da campeggio, ossia la stoffa dell’aquilone che si era portata in cielo Esmeralda (un ritaglio, ovviamente, non l’originale) e un piattino contenente alcuni dei denti gialli e rovinati del Vecchio Saul (estratti senza alcuna difficoltà).
Mi misi una mano in mezzo alle gambe, chiusi gli occhi e ripetei le mie preghiere segrete. Ero in grado di recitarle automaticamente, ma provai a pensare al loro significato mentre le dicevo. Contenevano le mie confessioni, i miei sogni e le speranze, le paure e gli odii, e ancora mi fanno rabbrividire ogni volta che le pronuncio, automaticamente o meno. Basterebbe un registratore nelle vicinanze, e l’orribile verità sui miei tre omicidi verrebbe presto a galla. È solo per quel motivo che le preghiere sono pericolose. Dicono anche la verità su chi sono io, su ciò che voglio e ciò che provo, e fa una certa impressione sentirsi descrivere nel modo in cui si è pensato a se stessi nei momenti di sincerità e abiezione più estrema, tanto quanto è umiliante sentire a cosa si è pensato nei momenti di maggiore speranza e illusione.
Finite le preghiere, presi la vespa senza alcuna difficoltà, la portai verso la parte inferiore della Fabbrica e ce la feci entrare.
La Fabbrica della Vespa ricopre un’area di parecchi metri quadri disseminati in un groviglio irregolare e vagamente fatiscente di metallo, legno, vetro e plastica. Il fulcro della Fabbrica è il quadrante del vecchio orologio che un tempo era appeso sulla porta della Banca Reale di Scozia a Portneil.
L’orologio è l’oggetto più importante che abbia mai recuperato dalla discarica comunale. L’ho trovato là nell’Anno del Teschio e me lo sono portato fino a casa facendolo rotolare per il sentiero e per il ponte con un suono rimbombante. Dopodiché l’ho messo al sicuro nella rimessa e ho aspettato il momento che mio padre si allontanasse per un’intera giornata, poi ho faticato e sudato ore e ore per portarlo fino in soffitta. È fatto di metallo ed è quasi un metro di diametro. È pesantissimo e praticamente intatto. Le ore sono segnate con cifre romane. Era stato costruito a Edimburgo nel 1864, esattamente cento anni prima della mia nascita. Non si trattava certo di una coincidenza.
Ovviamente, visto che l’orologio dava sia verso l’interno che verso l’esterno della porta, ci dev’essere stato anche un altro quadrante. Lho cercato per settimane, dopo che avevo trovato la parte in mio possesso, battendo a tappeto la discarica, ma non ho mai trovato l’altro pezzo. Anche questo fa parte del mistero della Fabbrica, una sorta di leggenda, nel suo piccolo. Il vecchio Cameron della ferramenta mi ha detto di aver sentito dire che un rottamaio di Inverness avesse preso gli ingranaggi dell’orologio, quindi forse anche il secondo quadrante è stato fuso, oppure adesso adorna una parete di qualche casa elegante costruita con i proventi delle macchine demolite e dei prezzi altalenanti del ferro. Ma propenderei per la prima ipotesi.
Nel quadrante c’era qualche buco, che io ho saldato, ma ho lasciato com’era il foro centrale in cui il meccanismo si collegava alle lancette, ed è da quell’apertura che le vespe vengono introdotte nella Fabbrica. Una volta entrate là, possono girovagare per tutto il quadrante a loro piacimento, e possono curiosare attorno alle candele con le vespe loro parenti sepolte nella cera, oppure ignorare quei piccoli sepolcri, a seconda dei gusti.
Comunque, una volta giunte al limite del quadrante che io ho sigillato con una barriera di compensato alta cinque centimetri e tappato con un vetro circolare fatto fare su misura dal vetraio, le vespe possono entrare in uno dei dodici corridoi attraverso porticine della loro misura, che corrispondono rispettivamente ai numeri, enormi rispetto alla loro stazza. Fatta la scelta, il peso della vespa aziona un delicato meccanismo ad altalena costruito con pezzi di lattine d’alluminio, fili e spilli, e la porticina si chiude alle spalle dell’insetto, imprigionandolo nel corridoio selezionato. Nonostante io mi preoccupi di tenere i meccanismi delle porte sempre ben oliati e bilanciati, e di ripararli e controllarli fino a che anche il più lieve tremolio le faccia scattare — mi tocca camminare con passo leggero quando la Fabbrica sta svolgendo il suo compito lento e mortale — qualche volta la Fabbrica non accetta la prima scelta operata dalla vespa, e la lascia strisciare fuori finché non si ritrova di nuovo sul quadrante.
Certe volte le vespe si mettono a volare o strisciare all’indietro fino al cerchio di vetro, a volte restano un sacco di tempo vicino al foro senza uscita da cui sono entrate, ma presto o tardi scelgono un buco e una porta funzionanti, e da quel momento il loro fato è segnato.
Gran parte delle morti offerte dalla Fabbrica sono automatiche, ma alcune richiedono il mio intervento per il colpo di grazia, cosa che, ovviamente, è in qualche modo in relazione con quello che la Fabbrica volta per volta tenta di comunicarmi. Se la vespa si arrampica su per le canne del fucile ad aria compressa, a me tocca premere il grilletto; se precipita nella Pozza Ribollente, devo attaccare la corrente; se invece va a finire nel Salotto del Ragno o nella Caverna di Venere o nella Formicheria, posso semplicemente sedermi ad assistere alla natura che compie il suo corso. Se la vespa è portata ad avventurarsi nel Pozzo Acido o nella Camera di Ghiaccio o verso quel luogo che scherzosamente ho ribattezzato Cesso dei Maschi (dove lo strumento di sterminio è la mia stessa urina, in genere fresca di giornata), anche in quel caso posso starmene a guardare; se va a cadere sugli aculei ad alta tensione della Sala del Voltaggio, posso rimirarla mentre viene fulminata; se si ritrova nella Zona del Pesomorto, la vedo che si spiaccica e si riduce in poltiglia; se infine incespica dentro al Corridoio delle Lame, la osservo sminuzzarsi in preda alle convulsioni. Quando mi capita di disporre di qualche morte alternativa in aggiunta a quelle elencate, allora vedo la vespa che si rovescia addosso cera liquefatta, che ingerisce marmellata avvelenata o si infilza su uno spillo catapultata da un elastico. Può anche succedere che l’insetto metta in moto una catena di eventi che alla fine lo porta a saltare per aria, intrappolato in una piccola camera ben sigillata, col diossido di carbonio estratto da una lampadina al sodio, ma quando sceglie l’acqua bollente o la canna del fucile del Cunicolo del Destino, allora io devo partecipare in modo diretto alla sua morte. E se si inoltra nel Lago Feroce, tocca a me abbassare la barra che aziona l’accendino.