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Sollevai il volto verso l’aria pungente e il cielo pastello dalle sfumature azzurre e rosate, con la sensazione del vento umido sulla pelle, ascoltando il sibilo della marea che scemava in lontananza. Da qualche parte una pecora si mise a belare.

Dovevo provare col Vecchio Saul, dovevo fare il tentativo di contattare il mio fratello pazzo prima che tutti questi fuochi si congiungessero e spazzassero via Eric, o spazzassero via la mia vita dall’isola. Cercai di convincermi che la situazione non fosse poi così grave, ma dentro di me sentivo che lo era; la Fabbrica non diceva mai bugie, e una volta tanto era stata anche piuttosto specifica. Mi stavo iniziando a preoccupare.

Nel Bunker, con il sarcofago della vespa di fronte al teschio del Vecchio Saul e la luce che filtrava dalle orbite dei suoi occhi ormai da tempo inariditi, mi inginocchiai nell’oscurità pungente davanti all’altare, col capo chino. Pensai a Eric. Pensai a com’era prima che gli capitasse quella spiacevole esperienza. A quando, sebbene si trovasse a distanza dall’isola, ne faceva ancora parte. Mi ricordai di com’era allora: un ragazzo intelligente, gentile, entusiasta. E poi pensai a com’era diventato: una forza del fuoco e della distruzione che si avvicinava all’isola come un angelo folle, con la testa brulicante di urla riecheggianti di pazzia e illusioni.

Mi sporsi in avanti e appoggiai il palmo della mano destra sul cranio del cane, tenendo gli occhi chiusi. La candela era accesa da poco, e il teschio cominciava appena a scaldarsi. Una parte cinica e sgradevole della mia mente mi disse che sembravo Spock in Star Trek mentre attivava un contatto psichico o qualcosa del genere, ma io la ignorai. Non me ne importava niente. Respirai profondamente, pensai ancora più profondamente. La faccia di Eric mi fluttuava davanti, lentiggini, capelli biondi e sorriso ansioso. Un volto giovane, sottile e intelligente, proprio come me lo immaginavo quando mi sforzavo di pensare a lui ai bei tempi, all’epoca delle estati passate insieme sull’isola.

Mi concentrai, mi premetti la pancia e trattenni il fiato, come se mi sforzassi di cagare. Il sangue mi rombava nelle orecchie. Con una mano mi schiacciai gli occhi chiusi, usando pollice e indice, dentro il mio stesso cranio, mentre l’altra mano si stava scaldando sul teschio del Vecchio Saul. Vidi delle luci, disegni erranti a forma di solchi che si allargavano a poco a poco, o simili a grosse impronte digitali arrotolate.

Sentii lo stomaco contrarsi involontariamente, e un’ondata di feroce agitazione mi attraversò il corpo. Solo acidi e ghiandole, lo sapevo benissimo, ma mi sentii trasportare da un teschio all’altro. Eric! Stavo per farcela! Lo sentivo. Sentivo i piedi doloranti e piagati, le gambe frementi, le mani sudicie e impastate di sudore, i capelli sozzi e pruriginosi. Sentivo il suo odore come fosse il mio, riuscivo a vedere attraverso quegli occhi che a stento si chiudevano e che gli ardevano nel cranio crudi, schizzati di sangue, asciutti. Sentivo i resti di qualche pasto agghiacciante che giacevano dentro lo stomaco, il sapore della carne bruciata e del pelo e degli ossi sulla lingua. Ce l’avevo fatta! Io ero…

Un’esplosione mi fece schizzare in aria. Il mio corpo fu sbalzato all’indietro e sbattuto via dall’altare come se fosse stato una granata leggera. Feci un volo sopra al pavimento di cemento ricoperto di terra e andai a finire contro il muro dalla parte opposta, con la testa che mi ronzava e la mano destra che mi faceva male. Caddi su un fianco e mi raggomitolai stringendo le ginocchia al petto.

Rimasi lì a terra a prendere fiato, con le braccia strette intorno al corpo e la testa spiaccicata sul pavimento ruvido del Bunker, e mi dondolai leggermente avanti e indietro. Sentivo la mano destra delle stesse dimensioni e dello stesso colore di un guantone da pugilato. Man mano che il respiro diventava regolare, dalla mano mi salivano fitte di dolore lungo tutto il braccio. Canticchiai a bassa voce e lentamente mi misi a sedere, sfregandomi gli occhi. Continuai a dondolarmi, avvicinando ancora di più la testa alle ginocchia, e indietreggiai leggermente con la schiena. Cercai di soccorrere il mio io distrutto e di riportarlo in salute.

Le ombre annebbiate che avevano riempito il Bunker cominciavano a dissolversi. Recuperata perfettamente la messa a fuoco, vidi che il teschio era ancora acceso, e le fiamme ardevano. Fissai quel bagliore e sollevai la mano destra, cominciando a leccarmela. Diedi un’occhiata intorno per vedere se il mio volo avesse danneggiato qualcosa, ma mi sembrò che fosse tutto a posto. Gli unici danni li avevo riportati io. Feci un sospiro tremolante e cercai di rilassarmi, appoggiando la testa sul freddo cemento del muro alle mie spalle.

Dopo un po’ mi raddrizzai e appoggiai sul pavimento la mano ancora palpitante per rinfrescarla. La tenni lì per qualche minuto, poi la tirai su e cercai di pulirla dal terriccio che la ricopriva, per vedere se c’erano ferite visibili, ma c’era troppa poca luce. Mi alzai lentamente e andai all’altare. Accesi le candele laterali con le mani che mi tremavano, misi la vespa e le altre cose nel contenitore di plastica alla sinistra dell’altare e diedi fuoco a quel sarcofago improvvisato sulla piastra di metallo davanti al Vecchio Saul. La fotografia di Eric prese fuoco. Il suo viso infantile scomparve tra le fiamme. Soffiai attraverso uno degli occhi del Vecchio Saul e spensi la candela.

Restai immobile per un attimo, cercando di mettere ordine nei miei pensieri, poi raggiunsi la porta di metallo del Bunker e la aprii. La luce morbida delle nuvole mattutine inondò lo stanzino e mi fece strizzare gli occhi. Mi voltai, spensi le altre candele e mi guardai di nuovo la mano. Il palmo era rosso e infiammato. La leccai ancora.

Ce l’avevo quasi fatta. Credevo sul serio di avere Eric in pugno, di avere il controllo della sua mente e di farne parte. Avevo visto il mondo attraverso i suoi occhi. Avevo sentito il sangue pulsare nella sua testa, il terreno sotto i suoi piedi. Avevo sentito l’odore del suo corpo e il sapore del suo ultimo pasto. Ma era troppo per me. La deflagrazione nella sua testa era qualcosa che una mente normale non poteva sopportare. Richiedeva una capacità folle di totale adesione che solo i pazzi completi riescono a esprimere costantemente, e che i soldati più feroci e gli atleti più agguerriti riescono a emulare soltanto per qualche istante. Ogni particella del cervello di Eric era concentrata su due sole azioni: tornare a casa e incendiare. E nessun cervello normale — neanche il mio, ben lontano dalla normalità e molto più potente della media — avrebbe potuto fronteggiare quello spiegamento di forze. Eric era dedito alla Guerra Totale, a una vera e propria Jihad. Si muoveva sulle ali del Vento Divino fino alle soglie dell’autodistruzione, e io non potevo farci niente.

Chiusi a chiave il Bunker e tornai a casa passando per la spiaggia, di nuovo a testa bassa, con più pensieri e preoccupazioni di quanti ne avessi all’andata.

Passai il resto della giornata a casa a leggere libri e giornali, a guardare la televisione e a pensare. Non potevo fare niente per Eric dall’interno, quindi dovevo cambiare strategia. La mia mitologia personale che ruotava attorno alla Fabbrica era abbastanza flessibile da accettare il fallimento che si era appena verificato e da usare una tale sconfitta per suggerire la vera soluzione. Le mie truppe d’assalto avevano subito uno scacco, ma avevo ancora tante altre risorse. Ce l’avrei fatta, ma non servendomi direttamente dei miei poteri. Almeno non applicando direttamente altri poteri che non fossero quelli dell’immaginazione. Era questo in definitiva il fondamento su cui si reggeva tutto il resto, e se non fosse stato in grado di reggere la sfida che Eric rappresentava, allora la mia distruzione sarebbe stata più che meritata.

Mio padre stava ancora pitturando, trascinandosi su per la scala verso le finestre con il barattolo della vernice e il pennello serrato tra i denti. Gli offrii il mio aiuto, ma lui insistette nel fare da solo. Quella stessa scala mi era servita diverse volte in passato per cercare di penetrare nello studio del vecchio, ma lui aveva piazzato delle serrature speciali alle finestre, e teneva pure le imposte accostate e le tende tirate. Mi piaceva vederlo arrancare con difficoltà sulla scala. Non era mai riuscito a salire sino in soffitta. Mi venne in mente che era proprio una fortuna che la casa fosse dell’altezza che era, altrimenti sarebbe stato capace di salire con la scala sino al tetto quindi di sbirciare dentro la soffitta attraverso i lucernari. Ma eravamo entrambi al sicuro, le nostre rispettive cittadelle erano al riparo anche per il futuro.