«Vuoi dire che non sai dove sei? Di nuovo?» esclamò incredulo Eric. Chiusi gli occhi e sbuffai con rassegnazione. Lui continuò: «E hai il coraggio di accusare me di dimenticarmi le cose? Ah ah!»
«Senti, tu sei completamente pazzo!» urlai io contro la plastica verde della cornetta stringendola sempre di più. Sentivo le fitte di dolore che mi salivano lungo il braccio, mentre la faccia mi si contorceva. «Non ne posso più delle tue telefonate. Prima mi chiami e poi ti comporti apposta in modo spaventoso. Smettila di fare questi giochetti!» rantolai, ormai a corto di fiato. «Sai bene cosa voglio dire quando dico “qui”! Voglio dire dove diavolo sei tu! Io so dove sono. Smettila di fare confusione, va bene?»
«Mmmh. Certo, Frank» disse Eric con tono di sufficienza. «Scusami se ti ho fatto arrabbiare.»
«Insomma…» avevo cominciato di nuovo a urlare, poi ripresi il controllo e mi calmai, respirando profondamente. «Senti… ecco… non trattarmi a quel modo. Ti ho solo chiesto dove sei.»
«Sì, va bene, Frank. Capisco» disse Eric pacatamente. «Ma proprio non posso dirti dove sono, altrimenti qualcuno potrebbe origliare. Lo vedi anche tu che non posso, vero?»
«Va bene, va bene» dissi io. «Ma non sei in una cabina, non è vero?»
«Be’, certo che no» disse lui innervosito. Poi riuscì a controllare il tono di voce e aggiunse: «Sì. È così. Sono in una casa. Una villetta, per essere precisi.»
«Cosa?» dissi io. «Di chi?»
«Non lo so» rispose, e mi sembrò quasi di sentire la sua scrollata di spalle. «Credo che potrei scoprirlo, se proprio ti interessa tanto. Ti interessa?»
«Eh? No. Sì. Cioè, no. Che importa? Ma dove… voglio dire… chi…»
«Senti, Frank» disse Eric spazientito «È solo la villetta per le vacanze di qualcuno, o il rifugio per il fine settimana, o qualcosa del genere, va bene? Non so di chi è. Ma chi se ne importa? L’hai detto anche tu…»
«Vuoi dire che hai scassinato la serratura?»
«Sì. E allora? Anzi, a dire il vero non ho dovuto scassinare un bel niente. Ho trovato la chiave della porta del retro nella grondaia. Cosa c’è di male? È un bel posticino.»
«Non hai paura che ti becchino?»
«Non molta. Sto seduto qui nella stanza che dà sulla facciata e controllo la strada. Non c’è problema. Ho da mangiare e c’è il bagno e il telefono e il freezer — Dio santo, ci entrerebbe un pastore alsaziano, qua dentro! — e il letto e tutto il resto. Che lusso!»
«Un pastore alsaziano!» strillai.
«Be’, sì, se ce l’avessi. Non ce l’ho, ma se ce l’avessi lo potrei conservare qua dentro. Infatti…»
«Non farlo» lo interruppi, chiudendo di nuovo gli occhi e sollevando la mano come se lui fosse lì in stanza con me. «Non dirmelo.»
«Va bene. Allora, volevo solo telefonarti per dirti che sto bene, e volevo sapere come stavi tu.»
«Io sto bene. Sei sicuro di star bene anche tu?»
«Sì. Mai stato meglio. Mi sento in forma. Credo che sia per quello che mangio…»
«Ascolta!» lo interruppi disperatamente, con la sensazione che i miei occhi si stessero aprendo sempre più al pensiero di ciò che stavo per chiedergli. «Non ti è successo niente stamattina, vero? Niente dentro di te… Non hai sentito niente? Hai sentito qualcosa?»
«Che vai blaterando?» disse Eric lievemente alterato.
«Hai sentito qualcosa stamattina, molto presto?»
«Ma che diavolo vuoi dire? Sentito?»
«Cioè, hai provato qualcosa? Una sensazione? Stamattina verso l’alba?»
«Be’» disse Eric in tono misurato e lento. «È strano che tu mi dica…»
«Sì? Che cosa?» dissi io con voce agitata, schiacciando la bocca così forte contro il ricevitore che i denti mi sbatterono sulla plastica.
«Niente di niente. Stamattina, se proprio devo essere sincero, è stata una di quelle mattine in cui non è successo un bel niente» mi informò Eric in tono quasi cortese. «Ho dormito.»
«Ma se hai detto che non dormi più!» dissi io furiosamente.
«Cristo, Frank. Nessuno è perfetto.» Cominciò a ridere.
«Ma…» cominciai. Serrai le labbra e digrignai i denti. Ancora una volta, chiusi gli occhi.
«Comunque, Frank, adesso piantala» disse lui. «A dir la verità sto cominciando a scocciarmi. Forse ti richiamo. In ogni caso ci vediamo presto. Ciao ciao.»
Prima che potessi ribattere, il telefono si ammutolì e io restai con la cornetta in mano, a guardarla come se fosse colpa sua. Avevo i nervi a fior di pelle e volevo sfogarmi. Pensai di sbattere il ricevitore contro qualche oggetto, ma poi decisi che sarebbe stato di cattivo gusto, e allora lo rimisi violentemente al suo posto. Fece uno squillo in risposta, e io lo fissai ancora. Poi mi voltai e me ne tornai di sotto sbattendo i piedi, mi buttai in poltrona e schiacciai a ripetizione i bottoni del telecomando, canale dopo canale, per circa dieci minuti. Dopodiché mi accorsi che stavo seguendo ben tre programmi contemporaneamente (il telegiornale, un altro agghiacciante telefilm americano e un documentario di archeologia), quando invece in genere faccio fatica a seguirne uno per volta. Gettai via il telecomando con disgusto e schizzai fuori, sotto la luce che andava ormai svanendo, a lanciare qualche sasso tra le onde.
9. Quel che accadde a Eric
Ero già a letto quando mio padre rincasò, subito dopo di me. Mi addormentai immediatamente, immergendomi in un sonno profondo e duraturo. La mattina dopo mi svegliai tardi, più del solito. Telefonai a Jamie. Non c’era, era andato dal dottore, ma sua madre mi disse che sarebbe rientrato presto. Mi preparai l’occorrente per la giornata e dissi a mio padre di aspettarmi per il tardo pomeriggio, poi mi avviai verso Portneil.
Jamie era tornato quando arrivai a casa sua. Tra una chiacchiera e l’altra ci scolammo un paio di lattine di Red Death, accompagnandole con dei dolci fatti da sua madre. Finito lo spuntino me ne andai, oltrepassai il paese e mi diressi verso le colline.
In cima a un colle ricoperto di erica, un pendio non troppo scosceso di terra e roccia situato oltre il confine dell’area forestale protetta, mi sedetti su una pietra per mangiare il mio pranzo al sacco. Guardai in lontananza, oltre l’orizzonte caliginoso, oltre Portneiclass="underline" i pascoli punteggiati del bianco delle pecore, le dune, la discarica, l’isola (non che sembrasse un’isola, a vederla da là, perché pareva attaccata alla terraferma), la sabbia, il mare. Il cielo ospitava qualche nuvola. Era azzurro acceso, a perpendicolo, ma verso l’orizzonte, verso la calma distesa del fiordo e del mare, sfumava in tinte più chiare. Le allodole cinguettavano nell’aria. Una poiana si librò in volo come se cercasse qualcosa che si muoveva in mezzo al prato, tra l’erba, l’erica e i cespugli di ginestra. Gli insetti ronzavano svolazzando tutt’attorno, e io per scacciarli mi sventolavo con una felce intanto che mangiavo i panini e bevevo il succo d’arancia.
Alla mia sinistra le colline si facevano sempre più alte e lontane, ergendosi gradualmente, e sfumavano verso il grigio e l’azzurro avvolte nel luccicore della distanza. Guardai col binocolo il paese ai miei piedi, vidi i camion e le macchine che correvano lungo la statale, poi seguii con lo sguardo un treno che andava a sud, si fermava in paese e ripartiva, snodandosi sinuosamente davanti al mare.
Mi piace lasciare l’isola, ogni tanto. Senza andare troppo lontano. Non so ancora se è veramente possibile, ma è bello allontanarsi un po’, qualche volta, e assumere un punto di vista leggermente più distanziato. Ovviamente so quanto è piccolo un pezzo di terra. Non sono affatto idiota. Ho una chiara idea delle dimensioni del pianeta e so quanto è minuscola la parte che io conosco. Ho guardato troppa televisione, ho visto troppi documentari sulla natura e sui viaggi per non rendermi conto di quanto sia limitata la mia conoscenza degli altri luoghi in termini di esperienza diretta. Ma non voglio andare troppo lontano, non sento il bisogno di viaggiare o di conoscere un altro clima o della gente diversa. So chi sono e conosco i miei limiti. Ho le mie buone ragioni per restringermi gli orizzonti. Paura, sì, lo ammetto. Ma anche necessità di sentirmi al sicuro in un mondo che si dà il caso mi abbia trattato con crudeltà quando non avevo ancora l’età e la possibilità di agire su di esso.