E poi mi è bastata la lezione di Eric.
Eric se n’era andato. Con tutta l’intelligenza che aveva, con tutto il suo promettente ingegno e la sensibilità, aveva lasciato l’isola per trovare la sua via. Aveva scelto un sentiero e l’aveva seguito. Quella strada l’aveva portato alla distruzione, l’aveva fatto diventare una persona completamente diversa, le cui somiglianze con il ragazzo sensato che fino allora era stato apparivano semplicemente oscene.
Ma era sempre mio fratello, e io gli volevo bene, in qualche modo. Gli volevo bene nonostante la sua alterazione, allo stesso modo in cui lui, credo, mi volesse bene nonostante la mia invalidità. Quello stesso senso di protezione, credo, che le donne pare provino nei confronti dei bambini e gli uomini nei confronti delle donne.
Eric aveva lasciato l’isola ancor prima che io nascessi. Tornava solo per le vacanze, ma io credo che la sua anima non si fosse mai mossa da lì. Quando tornò davvero, un anno dopo il mio piccolo incidente, quando nostro padre aveva deciso che eravamo entrambi cresciuti abbastanza perché lui potesse occuparsi di noi, io non ebbi alcun risentimento. Anzi, andammo d’accordo sin dall’inizio, e sicuramente devo averlo messo in imbarazzo con il mio atteggiamento servile e imitativo nei suoi confronti, anche se la sua sconfinata sensibilità gli ha sempre impedito di farmelo notare, evitando così il rischio di ferirmi.
Quando se ne andò per frequentare la scuola, io mi consumai dal dispiacere. Ogni volta che tornava per le vacanze mi illuminavo di gioia, saltellavo da tutte le parti e traboccavo di entusiasmo. Passavamo tutte le estati sull’isola, a far volare gli aquiloni, ad assemblare modellini di legno e di plastica, a giocare con il Lego, col Meccano e con tutto quello che trovavamo in giro, a costruire dighe, capanne, trincee. Facevamo volare gli aeroplanini, giocavamo con le barchette, costruivamo velieri di sabbia e ci inventavamo società segrete, codici, lingue. Lui mi raccontava delle storie, inventandosele sul momento. Certe volte le mettevamo anche in scena. Giocavamo ai soldati valorosi che combattevano tra le dune, e lottavamo, e vincevamo, e lottavamo ancora, e a volte morivamo. Le uniche volte che Eric riusciva veramente a ferirmi erano quelle in cui la storia richiedeva la sua morte eroica, e io prendevo tutto troppo sul serio: lo vedevo esalare l’ultimo respiro riverso nell’erba o nella sabbia, dopo che aveva fatto saltare in aria il ponte o la diga o il convoglio nemico solo per salvarmi la vita, e io ricacciavo indietro le lacrime, e lo prendevo a pugni per cercare di cambiare la storia, ma lui rifiutava, mi scansava via e moriva. Moriva troppo spesso.
Quando gli veniva l’emicrania — a volte durava per dei giorni — io mi innervosivo moltissimo. Gli portavo bevande fresche e cibo nella stanza buia al piano di sopra, scivolavo dentro e restavo lì al suo capezzale. Tremavo dalla paura quando prendeva a lamentarsi e a contorcersi nel letto. La sua sofferenza mi distruggeva, e niente aveva più senso per me. Le storie e i giochi diventavano improvvisamente stupidi e inutili, e l’unica attività che in quei momenti ancora mi sembrava sensata restava quella di lanciare sassi contro bottiglie e gabbiani. Me ne andavo in giro a cercare i gabbiani e a fare cose diverse da quelle che piacevano a lui. Quando si riprendeva, era come un nuovo ritorno a casa, e io diventavo irrefrenabile.
Alla fine, comunque, gli venne un bisogno impellente di allontanarsi, visto che ormai era diventato un uomo, e andò via da me, verso il mondo esterno, con tutte le opportunità favolose che offriva, con tutti i suoi spaventosi pericoli. Decise di seguire le orme paterne e cominciò a studiare medicina. Quando partì mi disse che nulla sarebbe cambiato. Sarebbe stato libero per gran parte dell’estate, anche se doveva andare a stare a Glasgow per lavorare in ospedale e fare assistenza ai medici durante le visite in reparto. Mi disse che per me sarebbe rimasto l’Eric di sempre, ma io sapevo che non era vero, e gli leggevo nel cuore che anche lui lo sapeva. Ce l’aveva scritto negli occhi, si capiva dalle sue parole. Stava lasciando l’isola. Stava lasciando me.
Non potevo biasimarlo, neanche allora che il dolore era per me veramente lancinante. Era Eric, era mio fratello, stava facendo quello che doveva fare, proprio come il soldato valoroso che cadeva per la giusta causa, o per me. Come potevo dubitare di lui, come potevo accusarlo, quando lui non aveva mai neanche lontanamente dato l’impressione di voler dubitare di me o di volermi accusare? Mio Dio. Tutti quei delitti, quei tre bambini ammazzati, tra cui anche un fratello. E lui non è stato mai sfiorato dall’idea che io avessi qualcosa a che fare con quelle storie. L’avrei capito. Non sarebbe stato capace di guardarmi in faccia se solo avesse avuto un sospetto, non sapeva proprio mentire.
E così se ne andò al sud, frequentò il primo anno, in anticipo rispetto agli altri per via dei suoi brillanti risultati, poi cominciò il secondo. L’estate di mezzo tornò a casa, ma era cambiato. Cercava di comportarsi con me come aveva sempre fatto, ma io sentivo che non era spontaneo. Era distante. Il suo cuore non era più sull’isola, l’aveva lasciato insieme ai compagni di università, insieme ai suoi studi tanto amati; forse vagava per qualche altra parte del mondo, comunque non era più sull’isola. Non era più con me.
Ce ne andavamo in giro, giocavamo con gli aquiloni, costruivamo le dighe, ma non era più come un tempo. Lui era un adulto che cercava di farmi divertire, non un ragazzo che cercava di divertirsi anche lui. Non furono certo giorni brutti, e io ero comunque felice che lui fosse con me. Ma dopo un mese Eric se ne andò via, non senza un certo sollievo, lasciandomi per raggiungere degli altri studenti suoi amici in vacanza nel sud della Francia. Quella partenza fu per me come un lutto, stavo piangendo la morte di mio fratello, dell’amico che lui era stato per me. Sentivo più acuto che mai il dolore della mia lesione, quella lesione che avrebbe significato per me una condanna a una perenne adolescenza, che mi avrebbe impedito di crescere e diventare un vero uomo, capace di trovare la propria strada nel mondo.
Riuscii comunque a respingere quelle sensazioni in breve tempo. Avevo il Teschio, avevo la Fabbrica, avevo un senso sostitutivo di soddisfazione mascolina nei confronti dei successi strepitosi di Eric nel mondo esterno, visto che, per quel che mi riguardava, stavo cominciando a impadronirmi dell’isola e delle terre circostanti e a esercitare il mio dominio incontrastato su di esse. Eric mi scriveva per dirmi come se la passava, e telefonava. Parlava con mio padre, poi con me. Certe volte mi faceva ridere, al telefono, come sanno fare certe persone brillanti che ti fanno divertire anche quando non ne hai voglia. Non mi faceva mai capire sul serio che aveva completamente abbandonato sia me che l’isola.
E poi gli capitò quello sfortunato episodio, che andò ad aggiungersi ad altre cose di cui né io né mio padre sapevamo niente. Un episodio che fu sufficiente a far fuori anche un tipo strano come lui, a farlo schizzare via verso qualcos’ altro, un insieme di tante cose: quello che lui era prima (anche se diabolicamente invertito) e nello stesso tempo una persona più saggia e capace di stare al mondo; un adulto ferito e pericoloso, confuso, patetico e insieme un maniaco. Mi faceva pensare a un ologramma e ai suoi frantumi. Con l’immagine intera contenuta in ogni frammento acuminato, scheggia e contemporaneamente interezza.
Accadde durante il secondo anno, nell’ospedale dove faceva tirocinio. Non doveva lavorare lì a tempo pieno, nessuno gli imponeva di occuparsi di quell’umanità derelitta nei reparti più infognati dell’ospedale. Andava là a dare una mano durante il suo tempo libero. Successivamente mio padre e io venimmo a sapere che aveva avuto certi problemi di cui non ci aveva mai parlato. Si era innamorato di una tizia, ed era finita male, lei gli aveva detto che in fondo non lo amava e se ne era andata con un altro. Per un periodo le sue emicranie erano peggiorate e avevano finito per interferire con il lavoro. Era per quello, e per la ragazza, che lavorava in modo non ufficiale nella clinica universitaria: dava una mano agli infermieri del turno di notte, seduto coi suoi libri nel buio della corsia mentre i vecchi e i giovani e gli infermi si lamentavano e tossivano.