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Ma non tornò da me. Non volle avere niente a che fare con me, se ne stava chiuso in camera a sentire i suoi dischi a volume alto e non usciva mai, tranne che per andare in paese, dove però fu presto bandito da tutti e quattro i pub perché scatenava risse e urlava e insultava la gente. Quando si accorgeva di me mi puntava addosso i suoi occhi immensi, oppure si dava dei colpetti sul naso e ammiccava furtivamente. Gli era venuto uno sguardo torvo, segnato dalle occhiaie, e molto spesso gli tremavano le narici. Una volta mi sollevò tra le braccia e mi diede un bacio sulla bocca, facendomi una gran paura.

Anche mio padre divenne poco comunicativo. Si abbandonò a una vita tetra fatta di lunghe passeggiate e silenzi cupi, introspettivi. Si mise a fumare sigarette, e per un periodo ne fumò in gran quantità, una dopo l’altra. Andò avanti così per circa un mese, e la casa era diventata un inferno. Io stavo spesso fuori, oppure mi chiudevo in camera a guardare la tv.

In quel periodo Eric cominciò a terrorizzare i ragazzini giù in paese, prima scagliandogli addosso manciate di vermi, poi ficcandoglieli dentro ai vestiti all’uscita da scuola. Quando infine cominciò a metterglieli in bocca, un gruppetto di genitori, un insegnante e Diggs arrivarono sull’isola per parlare con mio padre. Io stavo nella mia stanza, in un bagno di sudore, mentre quelli parlavano giù in salotto, con i genitori che ricoprivano mio padre di urla. Eric fu interrogato dal dottore, da Diggs, e anche da un assistente sociale di Inverness, ma non diceva quasi niente: se ne restava seduto, col sorriso sulle labbra, e ogni tanto parlava della quantità di proteine contenute nei vermi. Una volta tornò a casa tutto pesto e sanguinante, e io e mio padre deducemmo che qualche ragazzo più grande o qualche genitore doveva avergliele suonate di santa ragione.

Un giorno un gruppo di ragazzini vide mio fratello che versava una tanica di benzina addosso a uno yorkshire e gli dava fuoco. Non si vedevano più cani in circolazione da circa due settimane. I genitori credettero ai propri figli e si misero alla ricerca di Eric. Lo trovarono che stava facendo la stessa cosa a un vecchio bastardino precedentemente adescato con dei dolci all’anice. Lo inseguirono per i boschi che si estendono oltre il paese, ma non riuscirono a prenderlo.

Diggs venne ancora da noi, quella sera, per dirci che doveva arrestare Eric per disturbo alla quiete pubblica. Aspettò fino a tardi, accettando solo un paio di whisky che mio padre gli aveva offerto, ma Eric non tornò. Diggs se ne andò e mio padre rimase ancora in attesa, ma Eric non si fece vivo. Dopo tre giorni e cinque cani finalmente tornò, stravolto e lurido. Puzzava di benzina e di fumo, aveva i vestiti a brandelli e la faccia scarnita e sudicia. Rientrò la mattina presto (fu mio padre a sentirlo), saccheggiò il frigo, ingurgitò una gran quantità di cibi diversi e si trascinò rumorosamente a letto.

Mio padre strisciò furtivo fino al telefono e chiamò Diggs, che arrivò prima di colazione. Eric però doveva essersi accorto di qualcosa, perché uscì dalla finestra della sua stanza, calandosi giù per la grondaia, e se la filò con la bicicletta di Diggs. Dopo una settimana e due cani, riuscirono a prenderlo mentre era intento a risucchiare benzina da una macchina parcheggiata per strada. Durante l’arresto i suoi concittadini gli ruppero la mascella, e quella volta Eric non scappò.

Qualche mese più tardi fu dichiarato malato di mente. Era stato sottoposto a ogni tipo di esame, aveva tentato di fuggire innumerevoli volte, e aveva aggredito infermieri, assistenti sociali e medici, minacciandoli di intraprendere azioni legali ai loro danni o addirittura di ammazzarli. Man mano che le analisi cliniche, le minacce e le rivolte proseguivano, Eric veniva trasferito in istituti sempre più sicuri e attrezzati per le lunghe degenze. Ci arrivarono notizie che si era calmato molto nella casa di cura a sud di Glasgow e aveva smesso di tentare la fuga, ma a ripensarci forse stava proprio tentando — riuscendoci, a quanto pare — di placare i sorveglianti dandogli l’illusione di non doversi più preoccupare di lui.

E adesso stava di nuovo tornando da noi.

Feci scorrere lentamente lo sguardo, attraverso il binocolo, lungo il paesaggio che si stendeva davanti a me e ai miei piedi, da nord a sud, da una parte all’altra dell’orizzonte caliginoso, tra il paese e le strade e la ferrovia e i campi e la spiaggia, e mi chiesi se i miei occhi potessero cogliere in qualche modo il luogo in cui si trovava allora Eric, ammesso che fosse già arrivato nei paraggi. Sentivo che era vicino. Non avevo nessuna ragione per pensarlo, però c’era stato tutto il tempo, la chiamata della notte precedente mi era sembrata più chiara delle altre, e poi… semplicemente lo sentivo. Poteva essere proprio qui in giro, acquattato da qualche parte in attesa che calasse la notte. Forse si stava muovendo furtivamente in mezzo al bosco, o tra i cespugli di ginestre, o attorno alle dune, forse si stava dirigendo verso casa, o forse andava a caccia di cani.

Camminai lungo il crinale delle colline, poi tornai giù di qualche chilometro, a sud rispetto al paese, attraversando file di conifere riecheggianti ronzii di motoseghe lontane, tra macchie scure di ombra e silenzio. Oltrepassai la ferrovia e qualche campo di orzo mosso dal vento, superai la strada e il pascolo impervio e giunsi alla spiaggia.

Camminai lungo la linea di sabbia dura, con i piedi in fiamme e le gambe indolenzite. Un vento leggero si era alzato dal mare, e ne fui felice, perché tutte le nuvole erano state spazzate via e il sole, che andava calando lentamente, era ancora forte. Arrivai a un torrente che avevo già attraversato su per le colline. Lo riattraversai lì, vicino al mare, addentrandomi nelle dune per dirigermi verso un ponte sospeso che stava da quelle parti. Un gregge di pecore si sparpagliò davanti ai miei occhi. Alcune erano tosate, altre avevano ancora la lana addosso. Si allontanarono ballonzolanti, coi loro belati incerti, si fermarono a una distanza che ritennero sicura e si misero a brucare l’erba punteggiata di fiori, chinando la testa o accovacciandosi sul prato.

Un tempo disprezzavo le pecore per la loro profonda stupidità. Le vedevo mangiare, e mangiare, e sempre mangiare, e bastava un cane per tenerne a bada intere greggi. Le inseguivo, divertendomi un mondo per il loro modo di correre, le vedevo andarsi a ficcare in situazioni stupide e complicate, e pensavo che si meritassero di finire in spezzatino, e che l’attività di produrre la lana fosse già troppo nobile per loro. Ci vollero anni e lunghe elaborazioni prima che finalmente mi rendessi conto di quello che le pecore rappresentassero veramente: non la loro stessa stupidità, ma il nostro potere, la nostra avidità e la superbia.

Dopo aver appreso le teorie dell’evoluzione e qualche nozione di storia e agricoltura, capii che quelle bestie bianche e grasse che mi avevano fatto tanto ridere perché andavano l’una dietro l’altra e si impigliavano nei cespugli erano non solo il prodotto di generazioni di pecore, ma anche il prodotto di generazioni di allevatori. Le avevamo create noi, le avevamo plasmate, trasformando quegli esemplari selvatici e intelligenti che le avevano precedute nella catena evolutiva in animali docili, timorosi, stupidi, succulenti e buoni a produrre lana. Non volevamo che le pecore fossero particolarmente furbe, visto che l’intelligenza e l’aggressività in qualche modo procedevano di pari passo. Certo, gli arieti sono un po’ più svegli, ma anche loro sono sviliti dalle stupide femmine con cui devono unirsi per la riproduzione.

Lo stesso principio vale per le galline e le mucche e per tutte le specie su cui abbiamo saputo mettere le nostre grinfie avide e affamate. Qualche volta mi viene in mente che qualcosa di simile sarebbe potuto succedere anche con le donne, ma, per quanto la teoria possa sembrare affascinante, forse mi sbaglio.