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Mi avvicinai ancora di più alla discarica, assaporandone l’odore marcio e dolciastro. Presi a calci le immondizie, capovolgendo a colpi di stivale gli oggetti più interessanti, ma non c’era niente che valesse veramente la pena di raccattare. Uno dei motivi per cui la discarica mi è sempre piaciuta tanto è che ogni volta è diversa. Si sposta, come fosse un immenso essere vivente, si espande come un’ameba gigantesca man mano che assorbe la terra feconda e i rifiuti di tutta la gente. Ma quel giorno sembrava stanca e noiosa. Diventai insofferente nei suoi confronti, lasciandomi quasi prendere dalla rabbia. Lanciai un paio di boccette per l’aerosol nel debole fuoco acceso nel mezzo. Caddero senza alcun vigore tra le fiamme pallide, dandomi poca soddisfazione. Lasciai la discarica e ripresi il mio cammino verso sud. A circa un chilometro dalla discarica, vicino a un torrente, c’era una specie di villetta, una casa per le vacanze che dava dritta sul mare. Era sigillata e deserta, e non c’erano impronte recenti sul sentiero sconnesso che portava all’entrata e poi alla spiaggia. Era proprio su quel viottolo che Willie, un amico di Jamie, ci aveva fatto fare la corsa sul furgone, sgommando a tutta velocità sulla sabbia.

Sbirciai l’interno dalla finestra. Nella penombra si scorgevano dei mobili male assortiti, dall’aria polverosa e abbandonata. Sul tavolo c’era una vecchia rivista, con un angolo ingiallito dal sole. Mi sedetti là fuori, nell’ombra proiettata dal tetto spiovente, e finii di bere l’acqua. Mi tolsi il berretto e mi asciugai la fronte col fazzoletto. In lontananza si sentivano esplosioni soffocate provenienti dal campo-esercitazioni che stava più avanti, lungo la costa. A un certo punto il cielo fu squarciato da un jet, che passò sopra il mare piatto dirigendosi verso ovest.

Dall’altra parte della casa si stendeva una fila di collinette ricoperte di ginestre e alberi rachitici modellati dal vento. Puntai il binocolo da quella parte, scacciando le mosche con la mano. Cominciava a farmi male la testa e avevo la gola secca, nonostante avessi appena scolato quell’acqua ormai calda che mi era rimasta. Misi giù il binocolo e abbassai gli occhiali sul naso. In quel momento udii un rumore.

Era una specie di ululato. Un animale — mio Dio, sperai non fosse stato un essere umano a emettere quel suono — lanciò un urlo straziante. Era un gemito di angoscia crescente e disperata, un suono che solo un animale in fin di vita potrebbe produrre, e che mai si vorrebbe sentir emettere da qualsivoglia creatura vivente.

Mi sedetti, con il calore che mi arrostiva e il sudore che mi colava addosso. Mi vennero i brividi. Una folata fredda mi percorse le membra, e mi scrollai come un cane bagnato, da capo a piedi. Scossi la nuca inzuppata di sudore, e i capelli si staccarono, restando dritti dietro al collo. Mi alzai in fretta, aggrappandomi al legno caldo della casa, con il binocolo che mi sbatteva sul petto. L’ululato veniva dalle colline. Tirai su gli occhiali da sole e afferrai il binocolo, dandomi una botta in fronte mentre cercavo affannosamente di mettere a fuoco. Le mani mi tremavano. Una sagoma nera schizzò fuori dai cespugli, lasciando dietro di sé una scia di fumo. Discese a folle velocità la collina, calpestando l’erba punteggiata di giallo lucente, e oltrepassò una staccionata. Armeggiai col binocolo per cercare di ottenere una panoramica e seguire l’animale, ma il movimento convulso delle mani mi fece sfocare la visuale. Il gemito penetrante risuonava nell’aria, acuto e terribile. Vidi sparire quella sagoma dietro un cespuglio, poi tornai a vederla. Correva avvolta dalle fiamme, e saltava qua e là tra le canne e l’erba, con il fumo che le si levava attorno. Avevo la bocca tutta secca. Non riuscivo a inghiottire, stavo soffocando, ma continuai a seguire col binocolo la bestia che sbandava e si contorceva in preda ai guaiti, rimbalzava, cadeva, schizzava ancora in aria. Poi scomparve, a un centinaio di metri da me e altrettanti dalla cresta della collina. Spostai velocemente il binocolo verso l’alto per vedere cosa succedeva lassù, percorsi con lo sguardo ogni direzione, avanti e indietro, mi soffermai a osservare attentamente un cespuglio, scossi la testa, ispezionai nuovamente l’orizzonte. Una parte insulsa del mio cervello si mise a pensare a quello che si vede nei film quando qualcuno guarda con un binocolo, quello che si suppone debba vedere chi sta guardando: l’immagine è sempre racchiusa in una specie di otto coricato. Quando ci guardo dentro io, invece, vedo sempre un cerchio più o meno perfetto. Abbassai il binocolo e diedi una rapida occhiata intorno. Non c’era nessuno. Mi spostai di scatto dall’ombra, scavalcai il reticolato che delimitava il giardino e mi diressi di corsa verso le collinette.

Una volta raggiunto il crinale mi fermai per un momento, piegandomi in due per riprendere fiato e scrollarmi dai capelli un po’ di sudore, che lasciai gocciolare ai miei piedi, sull’erba scintillante. Avevo la maglietta appiccicata addosso. Poggiai le mani sulle ginocchia e sollevai la testa, sforzando gli occhi per scrutare gli alberi e i cespugli allineati in cima al colle. Percorsi con lo sguardo l’orizzonte, oltre i campi e le file di ginestre che segnavano il solco della ferrovia. Camminai a passo sostenuto lungo il crinale, con la testa che ciondolava avanti e indietro, finché non vidi una chiazza di erba che stava bruciando. Spensi il fuoco coi piedi e cercai delle tracce. Le trovai. Aumentai la velocità dell’andatura, nonostante le proteste dei miei polmoni e della gola, e vidi un altro incendio nell’erba che si stava propagando verso le ginestre. Estinsi anche quello, e proseguii.

Dalla parte interna del crinale vidi una piccola conca. Gli alberi là attorno erano cresciuti in modo abbastanza normale. Se ne vedevano solo le cime, che spuntavano dalla barriera delle collinette e parevano venir fuori direttamente dal mare, agitate dal vento.

Mi misi a correre verso la parte erbosa del dirupo, nella scia instabile di ombra proiettata dalle foglie e dai rami che ondeggiavano lentamente nel vento. C’erano delle pietre disposte in circolo attorno a un centro annerito. Diedi un’occhiata in giro. Vidi una chiazza di erba appiattita. Mi fermai per calmare i nervi, diedi un’altra occhiata agli alberi, all’erba, alle felci, ma non vidi nulla. Mi avvicinai alle pietre, le toccai, e lo stesso feci con le ceneri nel mezzo. Erano ancora calde, anche se ci batteva l’ombra, talmente calde da farmi ritirare la mano. Sentii odore di benzina.

Risalii dalla conca e mi arrampicai su un albero, mi sistemai bene in equilibrio e lentamente cominciai a ispezionare la zona, aiutandomi col binocolo. Niente.

Scesi dall’albero, rimasi immobile per un istante, poi tirai un respiro profondo e ridiscesi di corsa la collina, dal versante rivolto verso il mare, dirigendomi in diagonale verso il punto in cui avevo visto passare la bestia. Feci una deviazione per estinguere un altro piccolo incendio. Sorpresi una pecora intenta a brucare. Le saltai addosso, tanto per spaventarla, e quella si mise a belare e fuggì.

Il cane giaceva nel torrente che porta alla palude. Era ancora vivo, anche se aveva perso gran parte del pelo, e la cute sotto era livida e squarciata. Tremava nell’acqua, e a vederlo anche a me vennero i brividi. Rimasi sull’argine a guardarlo. Sollevò la testa scossa dalle convulsioni e mi guardò con un occhio solo, l’altro era bruciato. Nella pozza d’acqua in cui era immerso galleggiavano grumi di pelo bruciacchiato. Sentii nelle narici un leggero odore di carne bruciata, e mi venne un groppo alla gola, proprio sotto il pomo di Adamo.

Presi la borsa con i proiettili, mi slegai la fionda dalla cintola e la caricai. Allungai le braccia, avvicinandomi una mano al viso madido di sudore, e sparai il colpo.