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Il cane tirò fuori la testa di scatto, la rimise sott’acqua, poi la sollevò di nuovo e cercò di fuggire, riverso su un fianco. Si lasciò trascinare per un po’ dalla corrente, poi andò a sbattere contro l’argine. Perdeva sangue dall’orbita ormai vuota di quell’unico occhio che gli era rimasto. «A Frank non si sfugge» mormorai.

Trascinai fuori il cane e scavai col coltello una fossa nel terreno soffice di torba che circondava l’alto corso del torrente, soffocando i conati che mi salivano per la puzza del cadavere. Seppellii la bestia, mi guardai attorno e poi, dopo aver valutato bene la direzione del vento, mi spostai di qualche metro e diedi fuoco al prato. Le vampe lambirono le ultime tracce di quella fuga fiammeggiante, insieme alla tomba del cane. L’incendio si propagò fino al torrente, dove sapevo sarebbe terminato. Estinsi qualche chiazza isolata che stava prendendo fuoco sull’altra sponda, dove erano volati dei tizzoni.

Quando fu tutto finito, e il cane fu definitivamente arso dalle fiamme, mi voltai verso casa e mi misi a correre.

Non ci furono incidenti sulla via del ritorno. Tracannai un litro d’acqua e cercai di rilassarmi nel fresco della vasca da bagno, con un cartone di succo d’arancia appoggiato sul bordo. Stavo ancora tremando. Mi ci volle un po’ per togliermi dai capelli la puzza di bruciato. Dalla cucina, dove mio padre stava facendo da mangiare, salivano odori di cibi vegetariani. Non avevo dubbi: avevo quasi visto mio fratello. Non era lì che aveva passato la notte, pensai, ma c’era passato, e per poco non l’avevo incrociato. In un certo senso provai sollievo. La cosa mi risultava difficile da accettare, ma era la verità.

Sprofondai di schiena, lasciando che l’acqua mi venisse addosso.

Mi infilai la vestaglia e scesi in cucina. Mio padre era seduto a tavola in calzoncini e canottiera, con i gomiti appoggiati sul piano e lo sguardo fisso sull’Inverness Courier. Rimisi in frigo il succo d’arancia e tirai su il coperchio del tegame; dentro c’era un intruglio al curry che si stava raffreddando, da accompagnarsi con l’insalata disposta sul tavolo in una ciotola. Mio padre sfogliava il giornale, ignorandomi.

«Caldo, eh?» dissi, in mancanza di altri argomenti.

«Mmmh.»

Mi sedetti all’altro capo del tavolo. Mio padre voltò un’altra pagina, a testa bassa. Mi schiarii la gola.

«C’è stato un incendio giù, vicino a quella casa nuova. L’ho visto. E l’ho anche spento» dissi per coprirmi le spalle.

«Sarà stato per il caldo» disse mio padre senza alzare lo sguardo. Annuii tra me, grattandomi in mezzo alle gambe senza dare nell’occhio, attraverso i lembi della vestaglia.

«Ho sentito le previsioni. Dicono che domani sul tardi cambia il tempo» dissi scrollando le spalle. «Così pare.»

«Bene, staremo a vedere» disse mio padre. Richiuse il giornale e si alzò a controllare lo stufato. Annuii, giocherellando con la cintura della vestaglia, e buttai un’occhiata distratta al quotidiano. Mio padre si sporse in avanti per annusare l’intruglio. Io rimasi immobile, con lo sguardo fisso nel vuoto.

Mi voltai verso di lui, mi alzai, girai intorno alla seggiola su cui prima era seduto, mi fermai, come a voler guardare fuori dalla porta. Ma i miei occhi caddero di sbieco sui titoli del giornale. MISTERIOSO INCENDIO DIVAMPA IN CASA DI VILLEGGIATURA, c’era scritto in prima pagina, in fondo a sinistra. Una villetta subito a sud di Inverness era andata a fuoco immediatamente prima che il giornale andasse in stampa. La polizia stava conducendo le indagini.

Tornai all’altro capo del tavolo, mi misi a sedere.

Mangiammo l’insalata e lo stufato, e io ricominciai a sudare. Un tempo pensavo di essere una strana creatura perché avevo scoperto che il giorno dopo aver mangiato curry anche le mie ascelle sapevano di curry, ma poi Jamie mi disse che succedeva anche a lui, e la cosa mi tranquillizzò notevolmente. Mangiai lo stufato, poi uno yogurt e una banana, ma non servì a togliermi il piccante dalla bocca. Mio padre, che aveva sempre avuto un atteggiamento masochistico nei confronti di quel piatto, non riuscì a finirlo, e ne lasciò quasi la metà.

Ero ancora in vestaglia, a guardare la tv in soggiorno, quando squillò il telefono. Mi avviai verso la porta, ma sentii mio padre che usciva dal suo studio per andare a rispondere. Rimasi sulla soglia ad ascoltare. Non riuscii a capire molto, poi sentii i passi di mio padre che veniva giù dalle scale e tornai in fretta alla mia poltrona, ci sprofondai dentro e poggiai la testa su un bracciolo, con gli occhi chiusi e la bocca semiaperta. Mio padre aprì la porta.

«Frank, è per te.»

«Eh?» dissi io piano. Aprii gli occhi, mi voltai verso la tv, poi mi alzai un po’ barcollante. Mio padre lasciò la porta aperta e ritornò nello studio. Andai al telefono.

«Sì… Pronto?»

«Buo-o-n-giorno, pa-a-rlo con Fra-a-nk?» disse una voce strascicata.

«Sì. Chi è?»

«Ah, ah, piccolo Frank!» urlò Eric. «Bene, eccomi qua, sono nel cuore della foresta e continuo a mangiare i miei hot dog! Ah, ah! Allora come stai, ragazzo mio? L’oroscopo ti è favorevole, vero? A proposito, di che segno sei? L’ho dimenticato.»

«Del cane.»

«Oh, davvero?»

«Sì. E tu di che segno sei?» chiesi io seguendo diligentemente un suo vecchio tormentone.

«Cancro!» arrivò la risposta, urlata.

«Benigno o maligno?» domandai io in tono stanco.

«Maligno!» stridette Eric. «Ho detto cancro, non tumore

Allontanai l’orecchio dalla cornetta. Cominciò a ridere sguaiatamente, e io dissi: «Senti, Eric…»

«Come stai? Come vanno le cose? A che pensi? Stai bene? Come te la passi? Che mi dici? Che fai di bello? Dove stai con la testa in questo momento? Dove sei stato? Cristo santo, Frank, sai perché le Volvo fischiano? Be’, neanch’io, ma chi se ne frega? Cosa disse Trotskij? “Ho bisogno di Stalin come di un buco in testa”. Ah ah ah ah ah! A dire il vero non mi piacciono queste macchine tedesche. Hanno i fari troppo ravvicinati. Stai bene, Frankie?»

«Eric…»

«A letto, a dormire. Forse a masturbarti. Ce l’hai il preservativo? Ah ah ah!»

«Eric» dissi io guardando su per le scale per controllare che mio padre non fosse là attorno. «Vuoi stare zitto?»

«Che?» disse Eric con voce rotta e risentita.

«Il cane» dissi io con un sibilo. «Oggi ho visto il cane. Quello vicino alla casa nuova. Ero lì. L’ho visto.»

«Che cane?» chiese Eric perplesso. Sentivo i suoi sospiri pesanti e un chiacchiericcio in sottofondo.

«Non cercare di confondermi, Eric. L’ho visto. Voglio che tu la smetta, hai capito? Basta coi cani. Mi senti? Hai capito? Allora?»

«Che? Che cani?»

«Hai capito benissimo. Sento che non sei lontano da qui. Niente più cani. Lasciali in pace. E smettila anche coi bambini. Niente vermi. Scordatelo. Se vuoi vieni a trovarci — sarebbe bello — ma niente vermi e niente cani in fiamme. Sto dicendo sul serio, Eric. Faresti meglio a darmi retta.»

«Dare retta a cosa? Di che stai parlando?» disse lui lamentoso.

«Hai sentito» dissi, e misi giù il telefono. Rimasi in piedi lì accanto, guardando in alto verso le scale. Dopo pochi secondi squillò di nuovo. Tirai su la cornetta, sentii solo il segnale e riattaccai. Restai in attesa per qualche minuto, ma non accadde altro.

Tornai in soggiorno e incrociai mio padre che usciva dallo studio asciugandosi le mani con uno straccio. Aveva gli occhi spalancati e si portava dietro una scia di odori incomprensibili.

«Chi era?»

«Jamie che faceva una voce strana» dissi.

«Mmmh» rispose, apparentemente risollevato, e tornò indietro.