La cortina di nubi si era squarciata qua e là, e le schegge di sereno si muovevano lentamente inondando chiazze di terra di una luce abbacinante e violenta. Ogni tanto la luce investiva la casa. Vidi l’ombra del mio sgabuzzino che si spostava man mano che il tardo pomeriggio si avviava a diventare prima serata e il sole ruotava sopra le nuvole sfilacciate. Un’immagine lenta di vetri riflessi mi abbagliò. Proveniva dal nuovo complesso residenziale immerso nel verde, un po’ in alto rispetto alla parte vecchia di Portneil. Quando una fila di finestre cessava di mandare i riflessi un’altra fila cominciava, con piccoli buchi di interruzione causati dall’occasionale apertura o dalla chiusura delle vetrate, oppure dal passaggio di qualche macchina sulla statale. Bevvi un po’ di succo, trattenendo in bocca i cubetti di ghiaccio, mentre l’alito opprimente della casa mi si spandeva intorno. Continuai a tenere il binocolo ben saldo, perlustrando nord e sud, spingendomi più lontano possibile con lo sguardo e facendo attenzione a non precipitare dal lucernario. L’opera terminò, lasciando spazio a della spaventosa musica contemporanea che mi faceva pensare al lamento di un eretico sul rogo oppure a un cane avvolto dalle fiamme. La ascoltai, perché mi faceva passare il sonno.
Alle sei e mezza squillò il telefono. Balzai giù dalla sedia, mi tuffai dalla porta della soffitta e slittai giù per le scale. Sollevai la cornetta e me la portai all’orecchio con un movimento secco. Mi venne quasi un fremito di eccitazione al pensiero della mia enorme capacità di coordinazione dei movimenti, e dissi, con voce calma: «Sì?»
«Fraaang?» biascicò stentata la voce di mio padre. «Frang, scceii tuu?»
Lasciai che il disgusto che provavo si insinuasse nella mia voce. «Sì, papà, sono io. Che succede?»
«Scciòono in paeese, figliòolo» disse lui sottovoce, come se stesse per scoppiare a piangere. Lo sentii tirare un respiro profondo. «Fraang, lo scciaii che ti ho sccembree uoluto beene… Sto… sto chiamàando dal paeese, figliòolo. Uuoi ueniire qui, uuoi ueniire… vieeni… Hanno préscioo Eric, figliòolo.»
Restai immobile. Guardai la carta da parati dietro al tavolino d’angolo col telefono che sta dove le scale fanno la curva. La carta aveva un disegno di foglie, verde su bianco, con una specie di rampicante che spuntava qua e là tra la vegetazione. Era attaccata un po’ storta. Non ci avevo mai fatto caso prima di allora, dopo tutte le volte che avevo risposto al telefono. Era orribile. Mio padre era stato un idiota a sceglierla.
«Fraang?» Si schiarì la gola. «Fraang, figliòolo?» disse, in modo quasi normale, poi si lasciò andare di nuovo: «Frang, scceii llì? Dì uualcossciaa, figliòolo. Dimmi uualche coosciia, figliòolo. Ho ddetto che hanno préscioo Eric. Scci scentii, figliòolo? Frang, sceii angòora lì?»
«Ti…» Le labbra mi si incepparono e la frase mi morì sul nascere. Mi schiarii la gola accuratamente e ricominciai. «Ti ho sentito, papà. Hanno preso Eric. Ho sentito. Arrivo subito. Dove ci vediamo, alla polizia?»
«No, no, figliòolo. Uediàmosci dauaanti… dauaanti alla bibglioteca. Sì, la bibglioteca. Ci uediàamo là.»
«La biblioteca?» dissi io. «Perché là?»
«Uaa beene, figliòolo… Scii ueediàmo. Eh?» Lo sentii sbatacchiare un po’ il ricevitore, poi la linea si ammutolì. Riattaccai lentamente. Sentii una fitta ai polmoni, una sensazione quasi metallica che andava di pari passo col battito martellante del cuore e con il vuoto dentro la testa.
Restai immobile per qualche istante, poi risalii le scale fino alla soffitta per chiudere il lucernario e spegnere la radio. Mi facevano male le gambe, le sentivo stanche. Forse avevo un po’ esagerato con gli sforzi in quegli ultimi tempi.
Gli squarci nelle nuvole si muovevano lentamente verso l’interno man mano che risalivo il sentiero per il paese. Erano le sette e mezza, ma era quasi buio, una foschia estiva di luce morbida che si spandeva dappertutto sopra la terra arida. Qualche uccello si agitò letargicamente al mio passaggio. Qualche altro se ne restò appollaiato sui fili del telefono che si dipanano fino all’isola sui loro pali scheletrici. Le pecore emettevano il solito suono rotto e sgradevole, e gli agnelli piagnucolavano al seguito. C’erano uccelli appostati anche sul filo spinato dei recinti, dove ciuffi di lana sporca rimasti impigliati segnavano il tragitto delle pecore. Nonostante tutta l’acqua ingurgitata durante il giorno, la testa cominciava di nuovo a farmi male. Sospirai e continuai a camminare, attraversando le dune declinanti e i campi incolti e i pascoli radi. Mi sedetti un attimo sulla sabbia, subito prima che le dune cessassero del tutto, e mi asciugai la fronte. Mi scrollai un po’ di sudore dalle dita e guardai in lontananza le pecore immobili e gli uccelli appollaiati. Dal paese si sentivano le campane, provenienti probabilmente dalla chiesa cattolica. O forse si era diffusa la notizia che i maledetti cani erano ormai al sicuro. Ghignai, sbuffai dal naso con una specie di mezza risata e oltrepassai con lo sguardo i prati e la boscaglia e la sterpaglia fino a che non vidi i campanili della Chiesa di Scozia. Riuscivo quasi a vedere la biblioteca, da lassù. Sentii i miei piedi gemere, e capii che non avrei dovuto sedermi. Mi avrebbero fatto troppo male, una volta ripreso il cammino. Sapevo perfettamente che stavo solo cercando di ritardare il mio arrivo in paese, così come avevo ritardato l’uscita da casa dopo la telefonata di mio padre. Guardai di nuovo gli uccelli sui fili, gli stessi fili telefonici che mi avevano comunicato la notizia. Sembravano quasi delle note in un pentagramma. Notai che c’era una zona vuota.
Corrugai la fronte, guardai più da vicino, mi accigliai ancora di più. Cercai il binocolo, mi tastai il petto. L’avevo lasciato a casa. Mi alzai e ripresi a camminare verso i terreni incolti, allontanandomi dal sentiero, poi affrettai il passo. Dopo un po’ mi misi a correre e attraversai la sterpaglia e i canneti, scavalcai una recinzione e mi ritrovai nel pascolo, dove le pecore si alzarono e si sparpagliarono blaterando lamentosamente.
Ero senza fiato quando arrivai ai cavi del telefono.
Ce n’era uno a terra. Il filo reciso penzolava di fianco al palo dalla parte della terraferma. Alzai lo sguardo e mi assicurai di non avere le traveggole. Alcuni degli uccelli appollaiati nei paraggi erano volati via, disegnando dei cerchi, e lo stridìo cupo delle loro voci si levò nell’aria immobile sopra l’erba riarsa. Raggiunsi di corsa il palo dalla parte dell’isola, all’altro capo del filo tagliato. Un orecchio, coperto di pelo corto bianco e nero e ancora sanguinante, era inchiodato al palo. Lo toccai e sorrisi. Mi guardai attorno in preda all’esagitazione, poi mi calmai. Volsi lo sguardo in direzione del paese, dove i campanili si ergevano come un dito puntato in segno di accusa.
«Bugiardo schifoso» mormorai, poi mi avviai di nuovo verso l’isola, prendendo velocità man mano che andavo avanti, squarciando il sentiero al mio passaggio, pestandone a fondo la superficie. Arrivai di corsa fino al Salto e lo superai con un volo. Mi misi a urlare e schiamazzare, poi mi azzittii e risparmiai il fiato prezioso per la corsa.
Tornai a casa e mi inerpicai schiumante di sudore fino alla soffitta, fermandomi un secondo davanti al telefono per verificare che funzionasse. La linea era interrotta. Corsi di sopra, diedi una rapida occhiata col binocolo dal lucernario, poi mi ricomposi, cercando di fare mente locale. Mi adagiai sulla sedia, riaccesi la radio e continuai a guardare.
Era là fuori da qualche parte. Dovevo ringraziare gli uccelli. Sentii un fremito dentro lo stomaco, quasi un’ondata di gioia gastroenterica che mi fece rabbrividire nonostante il caldo. Quel vecchio bugiardo di merda aveva provato a stanarmi da casa solo perché lui aveva paura di affrontare Eric. Mio Dio, che idiota a non aver percepito subito il tono menzognero in quella voce impastata! Con che coraggio poi mi sgridava quando bevevo! Almeno io lo facevo quando sapevo di potermelo permettere, non quando sapevo che avrei avuto bisogno di tutta la mia lucidità per affrontare una crisi. Che merda. E si considera un uomo!