Bevvi qualche altro bicchiere di succo d’arancia, ancora fresco dentro la brocca, mangiai una mela e un po’ di pane e formaggio, e continuai la perlustrazione. La serata si rabbuiò velocemente quando il sole calò e le nuvole si richiusero. Le correnti d’aria calda che avevano squarciato il cielo si erano già dissolte, e la coltre distesa sulle pianure e le colline si stava ricompattando, grigia e informe. Dopo un po’ sentii un tuono, e qualcosa di aspro e minaccioso si diffuse nell’aria. Ero sotto tensione, e non riuscivo a non aspettare lo squillo del telefono, anche se sapevo che non sarebbe arrivato. Quanto ci avrebbe messo mio padre a capire che stavo tardando? Pensava che arrivassi in bici? Era caduto in qualche fosso? Oppure barcollava alla testa di qualche banda di paesani diretti in massa all’isola con le torce accese per stanare l’Ammazzacani?
Non faceva molta differenza. Avrei visto chiunque fosse arrivato, anche al buio, e avrei accolto mio fratello o abbandonato la casa per rifugiarmi sull’isola se si fossero fatti vivi i vigilantes. Spensi la radio in modo tale da poter sentire i rumori della terraferma, e strabuzzai gli occhi per vedere nella luce morente. Dopo un po’ irruppi in cucina e raccattai del cibo, lo misi in una sacca e me lo portai su in soffitta. Nel caso avessi dovuto lasciare la casa per incontrare Eric. Forse avrebbe avuto fame. Tornai a sedermi, scrutando centimetro per centimetro le ombre che calavano sulla terra sempre più buia. In lontananza, ai piedi delle colline, c’erano delle luci che si muovevano sulla strada, scintillando nel crepuscolo e lanciando bagliori, come lampi di fari intermittenti, in mezzo agli alberi, dietro le curve, sopra le alture. Mi sfregai gli occhi e mi stiracchiai, cercando di mandar via la stanchezza.
Mi venne in mente di aggiungere qualche pastiglia di antidolorifico alla borsa che avrei portato con me in caso di uscita. Con questo tempo Eric avrebbe potuto avere l’emicrania, e forse avrebbe avuto bisogno di qualcosa per alleviare il dolore. Sperai che non ce l’avesse.
Sbadigliai, spalancai gli occhi, mangiai un’altra mela. Le ombre indistinte sotto alle nuvole erano diventate più scure.
Mi svegliai.
Era buio. Stavo ancora sulla sedia, con la testa sulle braccia incrociate, i gomiti poggiati contro l’infisso metallico del lucernario. Qualcosa, un rumore in casa, mi aveva dato la sveglia. Restai sulla sedia ancora un istante, col cuore in gola e la schiena dolorante per la posizione assunta per così tanto tempo. Il sangue si fece strada a fatica per tornare alle braccia, che sotto il peso della testa erano rimaste un po’ a secco. Mi stiracchiai sulla sedia, veloce e in silenzio. La soffitta era immersa nell’oscurità, e non percepivo niente. Toccai un bottone dell’orologio, vidi che erano le undici passate. Avevo dormito per delle ore. Che idiota! Sentii qualcuno che si muoveva di sotto. Passi indistinti, una porta che si chiudeva, altri rumori. Vetri rotti. Mi si rizzarono i peli dietro il collo. Era la seconda volta che mi succedeva nel giro di una settimana. Serrai le mascelle, mi dissi di smetterla di avere paura e di fare invece qualcosa. Poteva essere Eric, o poteva essere mio padre. L’avrei scoperto andando di sotto a vedere. Per sicurezza avrei preso con me il coltello.
Mi alzai dalla sedia e mi avvicinai con cautela alla porta costeggiando a tentoni i mattoni grezzi del comignolo. Mi fermai là davanti e tirai la camicia fuori dai pantaloni per nascondere il coltello appeso alla cintola. Cominciai lentamente a scendere verso il pianerottolo buio. C’era una luce nell’ingresso, in fondo, e proiettava strane ombre pallide e gialle sulle pareti del corridoio. Arrivai alla ringhiera, guardai oltre il parapetto. Non si vedeva niente. I rumori erano cessati. Annusai l’aria.
Percepii un odore di fumo e alcol che pareva arrivare direttamente dal pub. Doveva essere mio padre. Provai sollievo. In quel momento lo sentii uscire dal salotto, seguito da un rumore di bagnato, quasi un oceano tuonante. Mi scostai dal parapetto e rimasi in ascolto. Barcollava, sbatteva contro i muri, inciampava sulle scale. Sentii il suo respiro pesante. Stava borbottando qualcosa. Aspettai che il rumore e l’odore salissero. Restai immobile, e un po’ alla volta ritrovai la calma. Sentii mio padre arrivare al primo pianerottolo, dove stava il telefono. Poi, dei passi malfermi.
«Fraang!» urlò. Non mi mossi, restai in silenzio. Per istinto, forse. O per l’abitudine acquisita dalle tante volte che avevo finto di non essere dove realmente ero, in modo tale da poter ascoltare di nascosto chi credeva di essere solo. Respirai piano.
«Fraaang!» urlò ancora. Mi apprestai a tornare in soffitta, sgattaiolando via in punta di piedi, senza calpestare quei punti in cui il pavimento scricchiolava. Mio padre martellò di pugni la porta del bagno al primo piano e tirò una maledizione quando si accorse che era aperta. Lo sentii avviarsi su per le scale. Veniva verso di me, con passi brevi e irregolari. Gli scappò un grugnito quando inciampò e andò a sbattere contro il muro. Mi arrampicai in silenzio su per la scala, piegandomi in avanti fino a raggiungere il nudo pavimento in legno della soffitta. Restai là per terra, con la testa a un metro circa dalla botola dell’entrata, le mani aggrappate ai mattoni. Se mio padre avesse tentato di guardare dentro la soffitta dalla botola, avrei trovato riparo acquattandomi dietro la cappa del camino. Strizzai gli occhi. Mio padre sbatteva i pugni sulla porta della mia stanza. La aprì. «Fraang!» biascicò. E poi: «Oh… Cazzo!»
Ebbi un tuffo al cuore. Non lo avevo mai sentito imprecare a quel modo. Quella parola mi sembrò particolarmente oscena, pronunciata da lui. Non l’aveva detta con quel fare indifferente con cui la dicono Eric o Jamie. Lo sentii ansimare proprio sotto la botola, e il suo odore mi salì fino alle narici: whisky e tabacco.
Ancora passi barcollanti sul pianerottolo, poi lo sbattere della porta della sua stanza. Ripresi a respirare, e solo allora mi accorsi che avevo tenuto il fiato sospeso. Il cuore mi batteva fino a scoppiare, e mi sembrò quasi strano che mio padre non fosse riuscito a sentirlo rimbombare attraverso le assi del pavimento. Aspettai ancora un istante, ma i rumori erano cessati del tutto, si sentiva solo un remoto rumore bianco proveniente dal salotto. Forse aveva lasciato la tv accesa, ferma su un canale non sintonizzato.
Restai ancora dov’ero per cinque minuti, poi mi alzai lentamente, mi scrollai, infilai la camicia nei pantaloni, raccolsi al buio la borsa, mi fissai la fionda alla cintola, cercai in giro il gilè, lo trovai, e poi, con tutti gli attrezzi addosso, scivolai giù per la scala e arrivai al pianerottolo, lo attraversai e senza far rumore scesi dabbasso.
Nel salotto la televisione irradiava il suo sibilo variopinto nella stanza vuota. Mi avvicinai e la spensi. Mi voltai per uscire e vidi la giacca di tweed di mio padre tutta stropicciata sopra una sedia. La presi in mano e la sentii tintinnare. Frugai nelle tasche arricciando il naso per il tanfo di alcol e fumo che esalava. La mia mano si serrò attorno a un mazzo di chiavi.
Le tirai fuori e le osservai. C’era la chiave della porta d’ingresso, quella della porta sul retro, quelle della cantina e della rimessa, un paio di chiavi piccole che non riconobbi e poi un’altra chiave, probabilmente di qualche porta interna, come quella della mia stanza ma di forma diversa. La bocca mi si prosciugò improvvisamente, e mi accorsi che la mano cominciava a tremarmi, imperlata di sudore lungo le linee del palmo. Poteva essere la chiave della sua stanza oppure…
Corsi di sopra, facendo gli scalini tre per volta, interrompendo il ritmo solo quando dovevo evitare quelli che scricchiolavano. Passai davanti allo studio e mi fermai davanti alla stanza di mio padre. La porta era socchiusa, con la chiave infilata nella toppa. Mio padre russava. Chiusi delicatamente la porta e tornai in fretta allo studio. Misi la chiave nella serratura e la girai. Era ben oliata, e non oppose alcuna resistenza. Restai immobile per un secondo o due, poi ruotai la maniglia e aprii la porta.