I Pali erano in buono stato. Non mi serviva la sacca con le teste e i corpi. Li passai in rassegna uno per uno, lavorando per tutta la mattinata, e sotterrai la bara di carta con la vespa morta non in mezzo ai due Pali principali, come avevo pensato all’inizio, ma sotto il sentiero, proprio vicino alla parte del ponte che dava sull’isola. Fintanto che mi trovavo là, mi arrampicai su per i cavi di sospensione fino alla cima della torre che sta sulla terraferma, e mi guardai attorno. Si vedeva la parte più alta della casa, con uno dei lucernari della soffitta. Si vedeva anche la guglia della Chiesa di Scozia di Portneil, e del fumo che usciva dai comignoli della città. Tirai fuori dal taschino sinistro un coltello e con gran cura mi tagliuzzai il pollice sinistro. Macchiai di rosso la parte superiore della trave principale, quella che incrocia tutte le altre travi della torre, poi mi asciugai la piccola ferita con un fazzolettino disinfettante che tenevo in una delle borse. Dopodiché mi lasciai scivolare giù e recuperai il cuscinetto a sfere con cui avevo colpito il segnale il giorno prima.
La prima signora Cauldhame, Mary, la madre di Eric, è morta in casa, di parto. La testa di Eric era troppo grossa per lei: ebbe un’emorragia e morì dissanguata sul letto nuziale nel lontano 1960. È tutta la vita che Eric soffre di forti emicranie, e secondo me questi disturbi sono dovuti proprio al modo in cui venne al mondo. Tutta la faccenda dell’emicrania e della morte della madre hanno molto a che fare, a mio avviso, con “Quel che accadde a Eric”. Povera anima sfortunata, si trovava al posto sbagliato nel momento sbagliato, e gli è successa una cosa assurda che per pura fatalità lo ha coinvolto molto più di quanto avrebbe coinvolto chiunque altro avesse vissuto la stessa esperienza. Ecco i rischi che si corrono quando si va via da questo posto.
Se vogliamo, dunque, anche Eric ha ucciso. Credevo di aver commesso solo io omicidi in famiglia, ma il buon vecchio Eric mi ha battuto, uccidendo la madre addirittura prima di iniziare a respirare. Senza volerlo, è vero, ma non sempre è il pensiero che conta.
La Fabbrica ha detto qualcosa a proposito del fuoco.
Ci stavo ancora pensando, chiedendomi cosa significasse realmente. L’interpretazione più ovvia era che Eric avrebbe ancora bruciato qualche cane, ma io me ne intendevo fin troppo dei metodi della Fabbrica per considerarla una spiegazione definitiva. Sospettavo che ci fosse dell’altro.
In un certo senso mi dispiaceva che Eric stesse tornando. Stavo pensando di fare una Guerra di lì a poco, magari la settimana dopo o giù di lì, ma il fatto che Eric forse sarebbe riapparso mi fece cambiare idea. Sono mesi che non faccio una bella Guerra; l’ultima è stata quella dei Soldati Semplici contro gli Aerosol. Gli eserciti 1/72, con tanto di carri armati, pistole, camion, scorte, elicotteri e barche, dovettero unirsi tutti insieme per combattere l’invasione degli Aerosol. Era praticamente impossibile fermare gli Aerosoclass="underline" si misero a bruciare i soldati con armi e bagagli e a sparpagliarli su tutta la zona. Alla fine un valoroso soldato, che si era avvinghiato stretto a uno degli Aerosol mentre questi tornava in volo alla base, dopo tante avventure rientrò con la notizia che la base degli avversali era un tagliere ormeggiato a un ruscello interno sotto uno strapiombo. Una forza congiunta di truppe giunse lì giusto in tempo e ridusse la base in briciole, facendo saltare per aria lo strapiombo sopra ai resti ancora fumanti. Una bella guerra, con tutti gli ingredienti giusti e un finale tra i più spettacolari che avessi mai visto (quando tornai a casa quella sera mio padre mi chiese cos’erano state quelle esplosioni e tutto quel fuoco). È stato tanto, troppo tempo fa.
In ogni caso, con Eric sulla via del ritorno, pensai che non sarebbe stata una buona idea cominciare un’altra guerra solo per abbandonarla a metà e tornare a occuparmi del mondo reale. Decisi di rimandare le ostilità per qualche tempo. Mi misi invece a costruire una diga, dopo aver unto con sostanze preziose alcuni dei Pali più importanti.
Nella mia infanzia fantasticavo di salvare la casa costruendo una diga. Immaginavo che l’erba delle dune andasse a fuoco, o che cadesse un aereo, e che proprio io avrei impedito all’esplosivo che sta in cantina di esplodere, deviando una certa quantità di acqua da una diga lungo un canale e fin dentro la casa. Il mio desiderio più grande, a quel tempo, era farmi comprare da mio padre una scavatrice, in modo da poter costruire dighe vere e proprie. Ma ora ho un approccio molto più sofisticato, quasi metafisico, alla costruzione delle dighe. Mi rendo conto del fatto che l’acqua non si può realmente sconfiggere; alla fine l’avrà sempre vinta lei, con infiltrazioni e impregnazioni e ingrossamenti ed erosioni e straripamenti. Tutto quel che si può fare è costruire un qualcosa che possa solo temporaneamente deviarne il corso o bloccarla, convincerla a fare ciò che in realtà non vuole fare. Il piacere deriva dall’eleganza del compromesso che si viene a stabilire tra il corso che l’acqua vuole seguire (spinta dalla gravità e dal materiale su cui si muove) e quello che si vorrebbe che seguisse.
Credo che nella vita siano davvero pochi i piaceri paragonabili alla costruzione di dighe. Datemi uno spiaggione con un discreto dislivello e senza troppe erbacce, e un torrente di giusta grandezza, e sarò a posto per tutto il giorno.
A quell’ora il sole era bello alto, e io mi tolsi la giacca per posarla con le borse e il binocolo. Colpo Duro si mise ad affondare e a trapassare e a sminuzzare e a scavare, e fece così un’imponente diga a tre livelli, la cui sezione principale respingeva l’acqua per ottanta passi nel Torrente Nord; non lontano dal record massimo per la posizione che avevo scelto. Mi servii del solito pezzo di metallo che uso per le inondazioni (lo tengo nascosto tra le dune vicino al posto più adatto per costruire dighe), ma la piéce de résistance era un acquedotto con sopra un vecchio sacco per il pattume di plastica nera che avevo trovato nel cumulo di macerie. L’acquedotto trasportava il torrente straripato al di sopra di tre sezioni di un canale di deviazione che avevo scavato dalla zona soprastante la diga. Costruii un piccolo villaggio a valle, sotto la diga, completo di tutto: le strade, un ponte sopra a quel che restava del ruscello, e anche una chiesa.
Far saltare in aria una diga, o semplicemente fare in modo che provochi un’alluvione, è divertente quasi quanto la fase iniziale di progetto e costruzione. Mi servii di piccole conchiglie per simboleggiare le persone, come al solito. E come al solito neanche una conchiglia sopravvisse all’allagamento quando la diga saltò per aria. Affondarono tutte, il che vuol dire che morirono tutti quanti.
Mi era venuta una gran fame, cominciavano a farmi male le braccia e le mani si erano arrossate a forza di tenere la vanga o di scavare nella sabbia. Guardai l’acqua della prima inondazione precipitare giù verso il mare, piena di fango e di schifezze, poi mi voltai e mi diressi verso casa.
«Mi è sembrato di sentirti parlare al telefono ieri notte» disse mio padre.
Scossi la testa. «No!»
Stavamo seduti in cucina a finire il pranzo, io mangiavo lo stufato, mio padre lo accompagnava con riso integrale e insalata di alghe. Si era bardato con la roba che si mette quando va in città: scarponi marroni e un tre-pezzi di tweed marrone; e sul tavolo c’era il cappello marrone. Guardai l’orologio e vidi che era giovedì. Era molto strano che andasse da qualche parte di giovedì, a Portneil o più avanti ancora. Non avevo nessuna intenzione di chiedergli dove andasse perché mi avrebbe detto solo bugie. Un tempo quando gli chiedevo dove andava mi rispondeva: «Affottere». Una piccola città, diceva lui, a nord di Inverness. Ci vollero anni e un sacco di occhiate di scherno giù in paese prima che scoprissi la verità.