«Oggi esco» mi disse tra un boccone e l’altro di riso e insalata. Feci di sì con la testa, e lui aggiunse: «Torno tardi».
Forse andava a Portneil a ubriacarsi al Rock Hotel, o forse andava fino a Inverness, dove va spesso per affari su cui preferisce mantenere il segreto, ma a me venne il sospetto che in qualche modo c’entrasse Eric.
«Va bene» dissi io.
«Prendo le chiavi, così puoi sbarrare la porta quando vuoi.» Sbatté coltello e forchetta sul piatto vuoto e si pulì la bocca con un tovagliolino marrone di carta riciclata. «Ma non mettere tutti i catenacci, va bene?»
«D’accordo.»
«Fatti qualcosa da mangiare stasera, eh?»
Annuii di nuovo, senza alzare la testa dal piatto.
«E li fai i piatti?»
Annuii ancora una volta.
«Non credo che Diggs si farà vedere ancora; ma nel caso voglio che tu gli stia alla larga.»
«Non preoccuparti» gli dissi con un sospiro.
«Andrà tutto bene, vero?» disse lui alzandosi.
«Già. Già» dissi io prendendo l’ultimo boccone di stufato.
«Allora io vado.»
Alzai la testa e lo vidi mettersi il cappello, dare un’occhiata tutt’intorno alla cucina e darsi dei colpetti sulle tasche. Guardò ancora verso di me e fece un cenno col capo.
«Ciao» gli dissi.
«Ciao, stammi bene» rispose.
«Ci vediamo più tardi.»
«Sì.» Si girò attorno, poi si voltò, guardò ancora in giro per la stanza, scosse velocemente la testa e andò alla porta, e uscendo si prese il bastone che stava nell’angolo vicino alla lavatrice. Sentii la porta d’ingresso sbattere, poi ci fu silenzio. Sospirai.
Aspettai per qualche minuto e mi alzai, lasciando il piatto quasi pulito, poi attraversai la casa per andare in salotto, da dove si vedeva il sentiero che tra le dune porta al ponte. Mio padre camminava in fretta, a testa bassa, facendo oscillare il bastone con un’aria ansiosa e arrogante. Lo vidi tirare una bastonata a dei fiori selvatici che crescevano lungo i bordi del sentiero.
Andai di corsa al piano di sopra, fermandomi alla finestra della tromba delle scale per vedere sparire mio padre tra le dune davanti al ponte, feci di corsa gli scalini, arrivai alla porta dello studio e girai subito la maniglia. La porta era sbarrata, non si muoveva di un millimetro. Un giorno se ne sarebbe dimenticato, senza dubbio, ma oggi no.
Dopo aver finito di mangiare e di lavare i piatti, andai nella mia stanza, diedi una controllata alla birra e presi il fucile ad aria compressa. Controllai che ci fossero abbastanza pallottole nelle tasche della giacca, quindi uscii dirigendomi alle Terre del Coniglio, sulla terraferma, tra il ramo maggiore del torrente e la discarica.
Non mi piace adoperare il fucile. È un lavoro troppo preciso per me. La fionda è qualcosa di ulteriore, che richiede che tu sia tutt’uno con essa. Se non sei in forma, sbagli; se sai che stai facendo qualcosa di male, ugualmente sbagli. Con un’arma da fuoco, a meno che non spari a bruciapelo, con estrema precisione, è tutto un fatto esteriore: la punti e prendi la mira, e quest’è tutto, a meno che il bersaglio non sia fuori portata e non ci sia troppo vento. Una volta alzato il cane, la forza è tutta lì, aspetta solo di essere sprigionata dalla pressione di un dito. Con una fionda si vive insieme fino all’ultimo istante. Ti resta tesa tra le mani, respira con te, si muove con te, pronta al balzo, pronta al sibilo e allo scatto, e ti lascia in quella posa enfatica, con mani e braccia allungate nell’attesa di vedere la curva scura del proiettile in volo che va a colpire il bersaglio, con un tonfo delizioso.
Ma per andare dietro ai conigli, soprattutto a quei piccoli e astuti bastardi che stanno sulle Terre, bisogna aiutarsi con ogni mezzo possibile. Se spari se ne scappano verso la tana. Il fucile fa un rumore tale da spaventarli, è vero, ma, asettico e freddo com’è, aumenta anche la possibilità di ammazzarli al primo colpo.
Per quanto ne so io, nessuno dei miei sfortunati parenti è morto sparato. Se ne sono andati in tanti modi strani, i Cauldhame e i parenti acquisiti, ma che io sappia nessuno è stato fatto fuori da un’arma da fuoco.
Arrivai alla fine del ponte, dove tecnicamente il mio territorio finisce, e mi fermai un secondo a pensare, ad ascoltare, a guardare, a provare sensazioni e sentire odori. Sembrava che tutto andasse bene.
A parte quelli che ho ucciso io (e quando li ho ammazzati avevano tutti pressappoco la stessa età che avevo io allora) mi vengono in mente almeno tre persone in famiglia che se ne sono andate in modo insolito a quello che credevano fosse il loro Creatore. Leviticus Cauldhame, il fratello maggiore di mio padre, emigrò in Sudafrica, e lì comprò una fattoria nel 1954. Leviticus, un uomo di una stupidità talmente agguerrita che le sue facoltà mentali sarebbero forse migliorate con la demenza senile, lasciò la Scozia perché i conservatori non ce l’avevano fatta a ribaltare le riforme socialiste del precedente governo laburista: le ferrovie ancora statali, il proletariato che cresceva come le mosche adesso che c’era il Welfare State a impedire che le malattie operassero una selezione naturale, le miniere di proprietà dello stato… Intollerabile! Ho letto alcune lettere che scrisse a mio padre. Leviticus stava bene in campagna, anche se c’erano un po’ troppi negri in giro. Nelle prime lettere parlava della politica dello sviluppo separato in termini di “apart-odio”, poi qualcuno deve avergli detto che si diceva “apartheid”. Non è stato mio padre, questo è certo.
Un giorno Leviticus stava passando davanti alla centrale di polizia a Johannesburg, e camminava sul marciapiede dopo aver fatto un po’ di compere, quando un negro completamente pazzo, in preda a furore omicida, si buttò in stato di incoscienza dall’ultimo piano (pare che nella caduta si sia strappato via tutte le unghie). Andò a colpire il mio zio sfortunato e innocente, ferendolo a morte. Le ultime parole che biascicò in ospedale, prima di passare dal coma alla morte, furono: «Mio Dio, gli stronzi hanno imparato a volare…»
Un debole filo di fumo si levò davanti a me dalla discarica comunale. Non avevo intenzione di arrivare fin laggiù oggi, ma sentivo il bulldozer che a volte usavano per sparpagliare le immondizie andare su di giri e pigiare.
Era un po’ che non andavo alla discarica, era giunto il momento di andare a vedere che cosa aveva buttato via la brava gente di Portneil. È lì che ho trovato tutti i vecchi aerosol dell’ultima Guerra, per non parlare di certi pezzi importanti della Fabbrica della Vespa, compresa la Facciata.
Mio zio Athelwald Trapley, dal lato materno della famiglia, emigrò in America alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Trovò un buon lavoro con una compagnia di assicurazioni per poi fuggire con una donna e infine ritrovarsi, al verde e col cuore in pezzi, in un campo roulotte da due soldi alla periferia di Fort Worth, dove decise di mettere fine ai suoi giorni.
Aprì il gas della stufa e dello scaldabagno senza accendere il fuoco e si sedette ad aspettare la fine. Comprensibilmente nervoso, e certo anche un po’ sconvolto e turbato sia per la prematura scomparsa dell’amata che per la fine che stava riservando a se stesso, ricorse senza pensarci un attimo al metodo che abitualmente adottava per calmarsi, e si accese una Marlboro.