Si lanciò fuori dalla carcassa infuocata, urlando e incespicando tra le fiamme che lo avvolgevano dalla testa ai piedi. Aveva programmato di morire in modo indolore, non di lasciarsi bruciare vivo. Così si buttò di testa nella cisterna da duecento litri piena d’acqua piovana che stava dietro alla roulotte. Si incastrò nella cisterna e morì affogato, con le gambette che si dimenavano in modo patetico mentre inghiottiva acqua e si contorceva cercando di mettere le mani in posizione tale da potersi tirare fuori.
A venti metri circa dalla collina erbosa che dà sulle Terre del Coniglio cominciai a correre in silenzio, attraversando canne e sterpaglia con un’andatura furtiva, facendo attenzione a non provocare alcun rumore con la roba che mi portavo dietro. Speravo di prendere qualche bestiaccia subito, ma in caso di bisogno avrei aspettato pure fino al calare del sole.
Mi arrampicai con calma su per la salita, con l’erba che mi scivolava sotto il petto e la pancia, e le gambe tese nello sforzo di spingere il corpo in alto e in avanti. Andavo nella stessa direzione del vento, naturalmente, e la brezza era così forte da coprire gran parte dei rumori più leggeri. Da quel che potevo vedere, non c’erano conigli-vedetta sulla collina. Mi fermai a due metri circa dalla cima e caricai silenziosamente il fucile, controllando minuziosamente i proiettili di acciaio e nylon prima di inserirli nel caricatore e richiudere furtivamente l’arma. Chiusi gli occhi e pensai alla molla stretta, compressa, e alla piccola pallottola posata sul fondo rilucente della canna scanalata. Poi mi arrampicai in cima alla collina.
Dapprima pensai che avrei avuto da aspettare. Le Terre sembravano deserte nella luce pomeridiana, e solo l’erba si muoveva nel vento. Si vedevano le buche e i cumuli sparpagliati di escrementi, e si vedevano anche i cespugli di ginestre sull’estremità del pendio, al di sopra del terrapieno su cui stavano gran parte delle buche dove i conigli, correndo, scavavano sentieri serpeggianti e sottili, simili a gallerie che avanzavano a zig-zag tra i cespugli, ma delle bestie non c’era traccia. Era proprio là, in quei solchi tra le ginestre, che certi ragazzi del posto usavano mettere trappole. Ma io trovai i cappi di filo metallico, perché avevo visto i ragazzi piazzarceli, li tirai via e li posai in mezzo all’erba, lungo i sentieri che loro di solito prendevano per venire a controllare le tagliole. Se mai qualcuno sia incappato nella sua stessa trappola, questo non lo so, ma mi piace pensare che siano andati lì strisciando, con la testa davanti. In ogni caso, quei ragazzi, o chi per loro, non ne mettono più, di trappole. Credo che sia passato di moda, e se ne vanno in giro a fare scritte sui muri con le bombolette spray, a sniffare colla e a cercare qualcuno da scoparsi.
E raro che gli animali mi sorprendano, ma il coniglio che stava accucciato là vicino, non appena lo notai, per un attimo mi fece rabbrividire. Forse era lì da parecchio, in fondo alla zona pianeggiante delle Terre, immobile e con lo sguardo fisso su di me, ma io all’inizio non ci avevo fatto caso. Quando lo vidi, quella sua immobilità mi immobilizzò per un istante. Senza muovere un muscolo scossi mentalmente la testa come per schiarirmi le idee, e decisi che da quel grosso esemplare di maschio se ne sarebbe potuta ricavare una bella testa per un Palo. Sembrava quasi imbalsamato, da quanto era immobile, e io vidi che mi stava proprio fissando dritto negli occhi, senza battere ciglio, senza annusare col naso minuscolo, senza contrarre le orecchie. Lo guardai fisso anch’io, e con estrema lentezza avvicinai il fucile verso di me, muovendolo prima da una parte, poi leggermente dall’altra, sembrava quasi una cosa agitata dal vento nell’erba. Mi ci volle circa un minuto per mettere il fucile in posizione e per spostare la testa nella direzione giusta, con la guancia contro il calcio, e la bestia non si era ancora mossa di un millimetro.
Ingrandito di quattro volte e con il grosso muso baffuto diviso nettamente in quattro dalla croce del mirino, il coniglio sembrava ancora più impressionante, e ugualmente immobile. Col volto accigliato, bloccai d’improvviso la testa, e tutt’a un tratto pensai che forse era veramente imbalsamato. Forse qualcuno si stava divertendo alle mie spalle. I ragazzi che stanno giù in paese? Mio padre? Oppure Eric, di già? Era stata una mossa stupida spostare così la testa, di scatto, in modo innaturale; e il coniglio schizzò via su per il pendio. Abbassai la testa, e nello stesso tempo sollevai il fucile, senza pensarci. Non c’era tempo per riprendere la posizione giusta, tirare un bel respiro e premere con delicatezza il grilletto: dovevo sparare e basta. Il mio corpo era completamente sbilanciato, e con tutt’e due le mani sul fucile caddi in avanti, rotolando per terra per tenere l’arma fuori dalla sabbia.
Quando alzai lo sguardo, col fiato corto e il fucile ben stretto, con la parte posteriore del corpo immersa nella sabbia, non riuscii a vedere il coniglio. Feci forza sul fucile e mi colpii a un ginocchio. «Merda!» dissi tra me.
Il coniglio, comunque, non stava dentro a una tana. Non stava neanche vicino al pendio delle buche. Attraversava la pianura, correndo all’impazzata con balzi altissimi, puntando dritto verso di me, e sembrava che a ogni salto, a mezz’aria, tremasse e rabbrividisse. Veniva contro di me come un proiettile, con la testa tremolante, con una smorfia sul muso, coi denti lunghi e gialli, i più grossi denti che avessi mai visto a un coniglio, vivo o morto. Gli occhi parevano lumache arrotolate. Chiazze rosse gli schizzavano dalla coscia sinistra a ogni balzo. Mi era quasi arrivato addosso, e io stavo lì a guardare.
Non c’era tempo per ricaricare. Quando iniziai a reagire non restava più il tempo di fare niente che non fosse dettato dall’istinto. Lasciai il fucile sospeso a mezz’aria sopra alle ginocchia e cercai la fionda, che come al solito tenevo allacciata in vita, col manico incastrato tra la cintura e i calzoni. Non ebbi neanche il tempo di prendere i proiettili di ferro che usavo in caso di reazione immediata: il coniglio mi fu addosso in una frazione di secondo, puntando dritto alla gola.
Lo presi con la fionda, e mentre il grosso tubo nero di gomma si torceva nell’aria, caddi all’indietro con le braccia incrociate, lasciando che il coniglio mi passasse sopra la testa, poi presi a scalciare e a rigirarmi in modo da trovarmi alla stessa altezza della bestia, che scalciava e lottava con la forza di una faina, con tutt’e quattro le zampe aperte sulla discesa sabbiosa e col collo intrappolato nella gomma nera. Muoveva la testa da una parte é dall’altra nel tentativo di raggiungermi coi denti alle dita, pronto a trinciarmele. Gli fischiai contro, emettendo il sibilo attraverso i denti, e diedi uno strattone alla gomma, tirandola sempre più stretta. Il coniglio si mise a fare porcherie e a sputare ed emise un rumore stridente che non credevo i conigli fossero in grado di emettere, e sbatté le zampe per terra. Avevo i nervi a fior di pelle, a tal punto che diedi un’occhiata intorno per assicurarmi che quel suono non fosse un segnale per far saltare fuori un esercito di conigli della stessa razza di questa specie di dobermann, pronti a ridurmi a brandelli.
E non crepava, quella maledetta bestiaccia! La gomma si tendeva sempre di più, ma non abbastanza, e io non potevo muovere le mani per paura che mi lacerasse un dito o che mi staccasse via il naso con un morso. Per lo stesso motivo pensai di non prenderlo a testate; non avevo intenzione di avvicinarmi con la testa a quei denti. Non potevo neanche tirare su il ginocchio per spezzargli la schiena, perché stavo scivolando anch’io, con lui, giù per la china, e non riuscivo a trovare un appiglio su quella superficie con una gamba sola. Che follia! Non stavo mica in Africa! Era un coniglio, quello, non un leone! Ma che diavolo stava succedendo?
Alla fine la bestia mi morse, torcendo il collo più di quanto io potessi immaginare, e mi prese l’indice sinistro, in mezzo alle falangi.
Ecco tutto. Mi misi a urlare e tirai con tutte le mie forze, con la testa e le mani scosse dal tremito, buttandomi all’indietro per respingerlo, sbattendo con un ginocchio contro il fucile che era caduto nella sabbia.