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Finii a terra, nell’erba rada ai piedi della collina, e le nocche mi erano diventate bianche mentre strangolavo il coniglio, facendomelo roteare davanti al viso, e tenendogli il collo bloccato con la sottile striscia di gomma nera, annodata come un laccio. Stavo ancora tremando, quindi non riuscivo a capire se le vibrazioni del corpo erano mie o del coniglio. Poi il laccio cedette. Il coniglio mi venne a sbattere contro la mano sinistra, mentre l’altro capo dell’elastico mi sferzò il polso destro. Le mani mi schizzarono in direzioni opposte, sbattendo per terra.

Mi sdraiai sulla schiena, con la testa nella terra sabbiosa, e lo sguardo fisso verso il posto in cui giaceva il corpo del coniglio, al limitare di una sottile curva nera, imprigionato nell’impugnatura della fionda. La bestia era immobile.

Alzai lo sguardo al cielo e chiusi la mano a pugno, sbattendola a terra. Mi voltai ancora a guardare il coniglio, poi mi andai a inginocchiare accanto a esso. Era morto; la testa riversa all’indietro, il collo spezzato, era in queste condizioni quando lo sollevai. La coscia sinistra era impastata di rosso per via del sangue, là dove l’avevo colpito con il proiettile. Era grosso, delle dimensioni di un gattone, il coniglio più grosso che avessi mai visto. Era troppo tempo che non mi occupavo più di conigli, altrimenti avrei senz’altro saputo dell’esistenza di una bestia del genere.

Mi succhiai dal dito il rivoletto di sangue. La mia fionda, fonte per me di gioia e orgoglio, la mia Distruttrice Nera, era stata a sua volta distrutta da un coniglio! Oh, immagino che avrei potuto procurarmi per corrispondenza dell’altra corda di gomma, o farmi trovare qualcosa del genere dal vecchio Cameron della ferramenta, ma non avrebbe mai più funzionato. Ogni volta che avessi sollevato il nuovo arnese per mirare a un bersaglio, vivo o morto, avrei sempre avuto in mente questo istante. La Distruttrice Nera era finita.

Tornai a sedermi nella sabbia e diedi un’occhiata intorno. Non c’erano altri conigli. La cosa non mi stupiva molto. Non c’era tempo da perdere. C’è un solo modo di reagire dopo episodi del genere.

Mi alzai, ripresi il fucile, mezzo sepolto nella sabbia della scarpata, arrivai in cima all’altura, guardai in giro, quindi decisi di rischiare, e lasciai tutto com’era. Strinsi il fucile tra le mani e partii a velocità d’emergenza, lanciandomi al massimo giù per il sentiero che riconduce all’isola, contando sul fatto che la fortuna e l’adrenalina mi avrebbero impedito di mettere un piede in fallo e di finire a terra nell’erba, boccheggiante e con una frattura multipla al femore. Nei punti più stretti usavo il fucile per bilanciarmi. Sia l’erba che la terra erano asciutte, per cui il rischio era minore di quanto avrebbe potuto. Mi allontanai dal sentiero vero e proprio e mi arrampicai di corsa su per la duna, scendendo poi dall’altra parte, fino al punto in cui il tubo di alimentazione che porta a casa l’acqua e la corrente emerge dalla sabbia e attraversa il torrente. Scavalcai con un salto le punte di ferro e ricaddi a piedi uniti sul cemento, poi attraversai di corsa la stretta superficie del tubo e saltai giù sull’isola.

Una volta a casa, andai direttamente alla mia rimessa. Lasciai il fucile, controllai la Borsa da Guerra e me la feci passare sopra il capo, allacciandomela in fretta alla vita. Richiusi a chiave lo sgabuzzino e mi avviai lentamente verso il ponte intanto che riprendevo fiato. Oltrepassato il cancelletto che sta nel bel mezzo del ponte, mi misi a correre a tutta velocità.

Alle Terre del Coniglio ogni cosa era rimasta come l’avevo lasciata — il coniglio per terra, strangolato nella fionda spezzata, la sabbia smossa e ammonticchiata nel punto in cui era avvenuto lo scontro. Il vento ancora muoveva l’erba e i fiori, e nei dintorni non c’erano animali. Neppure gli uccelli avevano scovato la carogna. Tornai immediatamente al lavoro.

Prima di tutto tirai fuori dalla Borsa da Guerra una bomba d’una ventina di centimetri fatta di filo elettrico. Aprii una fessura nell’ano del coniglio. Controllai che la bomba fosse a posto, soprattutto che fossero ben asciutti i cristalli bianchi della miscela, poi aggiunsi un tubicino di plastica che facesse da miccia e una carica esplosiva attorno al foro praticato nel tubicino nero, e fissai tutto insieme. Imbottii con quella roba il coniglio ancora caldo, lasciandolo in posizione accovacciata, seduto a guardare verso le buche del pendio. Quindi presi delle altre bombe più piccole e le sistemai dentro alle buche, pestando bene sulla parte superiore dell’entrata ai tunnel, in modo tale che il tetto, franando, lasciasse spuntare soltanto i tubicini delle micce. Riempii di benzina una vecchia bottiglia di plastica e preparai il dispositivo di accensione, la lasciai a terra in cima al pendio su cui stavano gran parte delle buche, poi tornai verso la prima buca ostruita e diedi fuoco alla miccia col mio accendino usa e getta. L’odore di plastica bruciata mi si fermava nelle narici e il bagliore della miscela in fiamme mi danzava negli occhi, intanto che mi affrettavo verso la buca successiva. Guardai l’orologio. Avevo piazzato sei piccole bombe, e in quaranta secondi le avevo accese tutte.

Mi sedetti in cima al pendio, al di sopra delle buche, mentre lo stoppino del lanciafiamme bruciava piano nella luce del sole. Passato un minuto, il primo tunnel saltò in aria. Lo sentii nel fondo dei calzoni, e sogghignai. Le altre buche esplosero in fretta, e uno sbuffo di fumo esalato dalla carica all’imboccatura di ogni bomba si levò dalla terra annebbiata immediatamente prima che esplodesse la carica principale. Sulle Terre del Coniglio rimbombavano i grumi di terra sparsa, e il tonfo sordo si avvolgeva nell’aria. La cosa mi fece sorridere. Di rumore ce n’era davvero pochissimo. Giù a casa non si sarebbe sentito niente. Tutta l’energia delle bombe si era esaurita nello scoppio della terra e nel risucchio d’aria nelle tane.

Cominciarono a uscire i primi conigli intontiti. Due di essi sanguinavano dal naso, sembrava che non avessero altre ferite, però barcollavano, quasi cadevano. Spremetti la bottiglia di plastica e spruzzai uno schizzo di benzina sullo stoppino dell’accensione che, tenuto da un picchetto da tenda di alluminio, spuntava di un paio di centimetri fuori dall’imboccatura. La benzina si incendiò quando andò a finire oltre lo stoppino nella minuscola ghiera di metallo, rimbombò nell’aria e ricadde tra i bagliori sui due conigli e attorno a essi. Presero fuoco e avvamparono, correndo, inciampando, cadendo. Mi guardai attorno per vedere se ce n’erano altri, intanto che nella zona centrale delle Terre questi primi due, crollati finalmente nell’erba, irrigiditi ma ancora in preda a contorsioni, bruciavano crepitando nel vento. Una sottile lingua di fuoco guizzava attorno all’imboccatura del lanciafiamme; la spensi. Apparve un altro coniglio, più piccolo. Lo colpii col getto di fiamme e quello schizzò via fuori tiro, dirigendosi verso l’acqua accanto alla collina dove il coniglio feroce mi aveva attaccato. Rovistai nella Borsa da Guerra, tirai fuori la pistola ad aria compressa, caricai e sparai con un unico movimento. Il tiro fallì e il coniglio si trascinò dietro di sé per la collina una scia di fumo.

Colpii altri tre conigli col lanciafiamme, prima di metterlo via. Per ultima cosa lanciai il getto di benzina incandescente contro il coniglio con cui avevo lottato, che stava ancora lì sulle Terre, in prima linea, seduto, imbottito, morto, sanguinante. Il fuoco schizzò tutt’intorno in modo tale che la bestia scomparve, avvolta da onde e spirali nero-arancio. In pochi attimi la miccia si accese, e dopo circa dieci secondi l’ammasso di fiamme esplose e si estinse, scagliando a venti metri e passa di distanza, nell’aria del tardo pomeriggio, una cosa nera e fumosa e disperdendone i pezzi per tutte le Terre. L’esplosione, di gran lunga più forte di quelle delle buche e pressoché priva di qualcosa che potesse smorzarla, schioccò per le dune come una frusta, risuonandomi nelle orecchie e facendomi anche sobbalzare.