— Spero che riesca a trovate George. Mi piace quel ragazzo. Si fa prestare la mia Tessera Farmaceutica — disse Custode, e scoppiò d’improvviso in una risata, che però si spense subito. Quando Heather lo lasciò, era appoggiato con aria imbronciata contro lo stipite scrostato della porta d’ingresso. Lui e la vecchia casa si fornivano reciprocamente sostegno.
Heather tornò in centro col tram, noleggiò alla Hertz una Ford a vapore e si avviò sulla statale ovest. La cosa cominciava a piacerle. Vedova Nera che insegue la preda. Perché non era una detective, invece di essere una stramaledettissima civilista di terza categoria? Odiava la professione dell’avvocato. Richiedeva una personalità aggressiva e dogmatica. E lei non l’aveva. Aveva invece una personalità furtiva, segreta, timida, squamosa. Aveva le malattie veneree della mente.
In breve, la piccola vettura si trovò fuori dell’abitato: ormai erano scomparse le periferie che un tempo si estendevano per chilometri e chilometri lungo la carrozzabile. Durante gli Anni della Peste, negli ’80, quando in alcune zone non rimaneva in vita una persona su venti, la periferia non era un posto molto piacevole in cui abitare. Chilometri per raggiungere il supermercato, niente benzina per l’auto, e tutte le case che ti circondano piene di morti. Nessuno che ti possa dare una mano, niente cibo. Branchi di grossi cani status-symbol — tutti quegli afgani, alsaziani, danesi che venivano comprati per dimostrare il censo del proprietario — battevano, rinselvatichiti, i prati pieni di erbacce. Se si rompeva la finestra panoramica, chi veniva a cambiare il vetro? La gente si era rincantucciata nel vecchio centro cittadino, e le aree residenziali periferiche, dopo essere state saccheggiate, bruciavano. Come Mosca nel 1812, per decreto divino o per vandalismo umano: nessuno le voleva, ed esse bruciavano. L’epilobio, la prima pianta che cresce sulle aree bruciate, e da cui le api fanno il miele migliore, aveva ricoperto un ettaro dopo l’altro di certi villaggi residenziali come Kensington Homes West, Sylvan Oak Manor Estates e Valley Vista Park.
Il sole declinava quando Heather attraversò il fiume Tualatin, immobile come un nastro di seta tra gli argini alti e ripidi, coperti di alberi. Dopo qualche tempo si levò la luna, quasi piena; quando la strada deviò a sud, cominciò a risplendere giallastra alla sua sinistra. Le dava fastidio, le pareva che la spiasse da dietro le spalle quando prendeva le curve. Oggigiorno non era piacevole scambiare delle occhiate con la luna. Non simboleggiava più l’Irraggiungibile, come aveva fatto per millenni, né il Raggiunto, come aveva fatto per pochi decenni, ma il Perduto. Una moneta rubata, la canna della tua pistola puntata contro di te, un buco rotondo nel telone del cielo. La luna apparteneva agli Alieni. Il loro primo atto di aggressione — la prima notizia giunta all’umanità della loro presenza nel sistema solare — era stato l’attacco a Base Lunare, l’orribile assassinio per asfissia di quaranta uomini nella cupola a bolla. E nello stesso tempo, lo stesso giorno, avevano distrutto la piattaforma spaziale russa: quella cosa strana e affascinante, simile a un enorme seme di cardo, che era in orbita intorno alla Terra e da cui i russi si preparavano a partire per Marte. Soltanto dieci anni dopo la fine della Peste, i resti della civiltà umana erano risorti come la fenice, si erano messi in orbita, verso la luna, verso Marte: e avevano incontrato questo. Una brutalità senza forma, senza parole, senza ragione. Lo stupido odio dell’universo.
La manutenzione delle strade era molto scaduta dall’epoca in cui l’Autostrada era regina; c’erano dei tratti malconci e delle grandi buche. Ma Heather rasentò spesso il limite di velocità (75 km/h) mentre percorreva la vasta vallata illuminata dalla luna, attraversava il fiume Yamhill quattro volte (o cinque?), superava i due villaggi di Dundee e Grand Ronde (il primo ancora vivo, il secondo deserto, morto come Ur dei caldei), e arrivava finalmente alle montagne, alla foresta. Corridoio Forestale Van Duzer, diceva un antico cartiglio in legno: terra sottratta mólto tempo prima ai tagliaboschi delle compagnie di sfruttamento forestale. Non tutte le foreste americane si erano trasformate in carta da salumai, villini monofamiliari e fumetti di Dick Tracy sui supplementi domenicali dei quotidiani. Qualcuna di esse rimaneva ancora. Svolta a destra: Foresta Nazionale Siuslaw. E non si trattava neppure di una.di quelle aree a rimboschimento circolare, dove per ogni ceppo c’è un alberello stentato e rachitico: si trattava proprio di una foresta vergine. Forme di grandi abeti che si stagliavano contro il lucore del cielo notturno.
Il cartello da lei cercato era quasi invisibile in mezzo ai rami più bassi, che inghiottivano senza fatica la debole luce dei fanali dell’auto. Fece retromarcia e progredì lentamente, per un paio di chilometri, su solchi e gibbosità, finché vide la prima costruzione: un tetto di legno illuminato dal chiarore lunare. Erano passate da poco le otto.
Intorno ad ogni villino c’era un piccolo spiazzo di dieci, quindici metri di lato; era stato sacrificato un numero ridottissimo di alberi, ma avevano tagliato il sottobosco; una volta capita la disposizione, Heather riuscì facilmente a vedere i tetti illuminati, e, dall’altra parte del ruscello, una seconda fila di villini. Soltanto una delle finestre era illuminata. Una sera di martedì, all’inizio della primavera: non poteva esserci molta gente in vacanza. Quando aprì la portiera dell’auto fu sorpresa nel sentire quanto fosse rumoroso il ruscello: un ruggito salubre e ininterrotto. Raggiunse la costruzione illuminata, inciampando non più di due volte nel buio, e diede un’occhiata all’auto parcheggiata davanti: una macchina a noleggio della Hertz, a batteria. Naturalmente. Ma, se non era lui? Poteva essere un estraneo. Oh, cacca!, non ti mangiano mica. Bussò alla porta.
Dopo un poco, mormorando a bocca chiusa un’imprecazione, bussò di nuovo.
Il ruscello gridava forte, ma la foresta non si degnava di rispondergli.
Orr aprì la porta. Aveva i capelli ricci e arruffati, gli occhi rossi, le labbra secche. La fissò battendo le palpebre. Aveva un aspetto spregevole e disordinato. Le faceva quasi paura. — Sta male? — gli chiese lei, brusca.
— No, io… Venga dentro…
Non poté rifiutare. Vide che c’era un attizzatoio per la stufa: eventualmente si sarebbe potuta difendere con quello. Naturalmente, però, anche lui avrebbe potuto servirsene per aggredirla, se ci fosse arrivato per primo.
Oh, Cristo, a momenti era più robusta di lui, ed era molto più in forma. Codarda codarda. — Ha preso qualche stupefacente?
— No, io…
— Lei cosa? Cos’ha?
— Non posso dormire.
La piccola abitazione aveva un odore simpaticissimo di fumo e di legno. L’arredamento era costituito da una stufa con superficie di cottura a due posti, una scatola piena di rami secchi, uno stipetto, una tavola, una sedia, una brandina residuato militare. — Si sieda — fece Heather. — Ha un aspetto spaventoso. Vuole qualcosa da bere, vuole che le chiami un dottore? Ho del brandy in macchina. Le consiglio di venire con me a Lincoln City da un medico.
— No, non ho niente. Ho soltanto… — (sbadiglio sbadiglio) — sonno.
— Ha detto che non poteva dormire.
La fissò con occhi rossi e appannati. — Non posso dormire. Ho paura.
— Oh, Cristo. Da quant’è che va avanti?
(Sbadiglio sbadiglio) — Domenica.
— Non dorme da domenica?
— O da sabato? — fece lui, perplesso.
— Ha preso qualcosa? Uno stimolante?
Lui scosse la testa. — Un po’ ho dormito — disse molto chiaramente, poi parve cadere addormentato per un istante, come un uomo di novant’anni. Ma mentre lei, incredula, lo guardava, si svegliò di nuovo e disse in tono lucido: — È venuta qui a cercarmi?
— E che altro vuole che sia venuta a fare? A tagliarmi un albero di Natale, per l’amor di Dio? Lei mi ha fatto un bidone ieri a mezzogiorno, a colazione.
— Oh. — Rimase a occhi aperti: evidentemente cercava di metterla a fuoco. — Mi spiace — disse, — non avevo la testa a posto.
Dicendo queste parole, tornò a essere se stesso, nonostante gli occhi rossi e spiritati, i capelli in disordine: un uomo la cui dignità era così profonda da risultare pressoché invisibile.
— Va bene. Non importa! Ma lei sta saltando la Terapia… no?
Lui annui. — Vuole un po’ di caffè? — chiese. Era qualcosa di più che dignità. Coerenza? Integrità? Come un pezzo di legno non scolpito. La possibilità infinita, l’illimitata e incondizionata totalità di essere del non-impegnato, del non-agente, del non-scolpito: l’essere che, non essendo altro che se stesso, è ogni cosa.