— Lei ha detto di essersi sognato questo villino. Piuttosto modesto, come sogno. Perché non si è preso uno chalet sulla spiaggia di Saliahan, o un castello sul Capo Perpetua?
Lui scosse il capo, aggrottato. — Mi bastava. — Dopo avere battuto varie volte le palpebre, disse: — Quello che è successo. Quello che le è successo. Venerdì. Nell’ufficio di Haber. La seduta.
— È proprio ciò che voglio chiederle!
Le sue parole lo destarono. — Lei era cosciente…
— Credo di sì. Voglio dire, so che dev’essere successo qualcosa. E certo, da allora, mi pare di viaggiare su due binari con una ruota sola. Domenica, a casa mia, sono finita contro una parete! Vede? — Gli mostrò un livido sulla fronte: una zona più scura sulla sua pelle bruna. — Adesso la parete c’era, ma adesso non dovrebbe esserci… Come fa, lei, a sopportare questa cosa, ogni volta? Come fa a sapere dove si trovano gli oggetti?
— Non so dove si trovino — rispose Orr. — Tutto si confonde. Questo tipo di cose, ammesso che debba succedere, credo non sia previsto che succeda molto spesso. Così è troppo. Non riesco più a capire se sono pazzo o se soltanto non riesco più a districarmi tra tutte queste informazioni discordanti. Io… Questa cosa… Lei intende dire che mi crede davvero?
— E che altro potrei fare? Io ho visto cosa è successo alla città! Guardavo fuori dalla finestra! Non pensi che io desideri credere. Non lo desidero affatto, non cerco di credere. Cristo, è terribile. Ma quel dottor Haber, anche lui non voleva che credessi, no? Certo si è affrettato a fare un bel mucchio di chiacchiere per cambiare le carte in tavola. Però, tra quel che lei ha detto quando si è svegliato, l’andare a sbattere contro i muri, l’andare nell’ufficio sbagliato… Così mi sono cominciata a chiedere: avrà sognato qualcosa, da venerdì in poi? Le cose sono di nuovo cambiate, ma io non lo so perché non ero presente? E mi chiedo quali cose siano cambiate, e se resta ancora qualcosa di reale. Oh, cacca!, è tremendo.
— Lo è davvero. Senta, lei conosce la guerra… la guerra in Medio Oriente?
— Certo che la conosco. Mio marito c’è morto.
— Suo marito? — Pareva colpito dal fulmine. - Quando?
— Esattamente tre giorni prima che la guerra finisse. Due giorni prima della Conferenza di Teheran e il Patto Stati Uniti-Cina. Un giorno dopo che gli Alieni hanno fatto saltare la Base Lunare.
Orr la fissava costernato.
— Che c’è? Oh, al diavolo, è una ferita ormai rimarginata. Sono sei anni, quasi sette. E se fosse vissuto avremmo già divorziato, era un matrimonio che non valeva una cicca. Su, non è colpa sua!
— Ormai non so più che cosa sia e che cosa non sia colpa mia.
— Be’, Jim non è stato certamente colpa sua. Era soltanto un gran figlio di un cane, grosso, bello, nero e disgraziato: capitano faccio fuori tutti dell’Aviazione a 26 anni, fatto fuori dalla contraerea a 27, non creda di esserselo inventato lei, sono cose che succedono da migliaia di anni. Ed è successa esattamente la stessa cosa in quell’altra… realtà, prima di venerdì, quando il mondo era così affollato. La stessa cosa. Soltanto che è successo all’inizio della guerra… o no? — La sua voce si spezzò. — Santo Dio. Per noi era soltanto l’inizio della guerra, invece che i giorni del cessate il fuoco. Quella guerra era andata avanti per anni. Continuava ancora adesso. E non c’era… non c’era nessun Alieno. Vero?
Orr annuì.
— Lei li ha sognati?
— Haber mi ha fatto fare un sogno sulla pace. Pace in terra, buona volontà tra gli uomini. E così gli ho costruito gli Alieni. Per darci un nemico da combattere.
— Non è stato lei. È stata quella sua macchina.
— No. Posso farlo benissimo anche senza macchina, Miss Lelache. La macchina serve solo a risparmiare tempo, a farmi sognare subito. Anche se negli ultimi tempi ci ha lavorato sopra, per migliorarla in qualche maniera. Migliorare le cose è la specialità di Haber.
— Senti, diamoci del tu. Mi chiamo Heather.
— È un bel nome…
— E tu ti chiami George. Haber continuava a chiamarti George, in quella seduta. Come se tu fossi un cagnolino molto bravo e intelligente, o una scimmia da laboratorio. Mettiti sul divano, George. Sognami questo, George.
Lui rise. Aveva denti bianchi e una risata simpatica, anche così balordo e scarmigliato. — No, quello non sono io. Vedi, lui parla al mio subcosciente. Ed è come una specie di cane o di scimmietta, per i suoi scopi. Non è razionale, ma si può insegnargli a fare qualche esercizio.
Non parlava mai con amarezza, per terribili che fossero le cose che diceva. Ci possono essere veramente delle persone prive di odio e di risentimenti, si chiese lei? Persone che non gli va mai per storto l’universo? Che riconoscono il male e si oppongono ad esso, ma che ne restano sempre profondamente incontaminati?
Certo, ci sono. Innumerevoli, viventi e defunte. Coloro che sono ritornati in pura compassione alla ruota dell’esistenza; coloro che seguono la via che non può essere seguita, senza sapere di seguirla: la moglie del fittavolo dell’Alabama e il lama del Tibet e l’entomologo del Perù e il manovale di Odessa e il verduriere di Londra e il pastore della Nigeria e il vecchio che fa la punta a un bastone sul letto disseccato di un torrente, in qualche parte dell’Australia, e tutti gli altri. Non c’è nessuno di noi che non li abbia incontrati. Ce ne sono abbastanza da farci andare avanti. Forse.
— Senti una cosa. Spiegami un po’: soltanto dopo che sei andato da Haber, hai cominciato a fare…
— Sogni efficaci. No, prima. Sono stati questi sogni a farmi andare da Haber. Avevo paura dei sogni, e prendevo sedativi, illegalmente, per sopprimere il sogno. Non sapevo cosa fare.
— Perché non li hai presi anche queste ultime due notti, invece di cercare di stare sveglio?
— Ho finito la scorta venerdì sera. Non posso usare la ricetta quassù. Ma dovevo fuggire. Volevo allontanarmi da Haber. Le cose sono più complicate di quel che lui sia disposto a credere. Crede che le cose possano venire fuori giuste. E cerca di usarmi per farle venire fuori giuste, ma non vuole ammetterlo; mente perché non vuole dare un’occhiata diretta, perché non gli interessa la verità, la realtà, perché non riesce a vedere altro che la propria testa… le sue idee su come dovrebbe essere il mondo.
— Be’, non posso far niente per te, come avvocato — disse Heather, che non seguiva molto bene il discorso di George; sorseggiò il suo caffè e brandy, mistura da stendere secco un marinaio. — Non c’era niente da obiettare sulle sue istruzioni ipnotiche, a quel che ho visto; ti ha soltanto detto di non preoccuparti della sovrappopolazione e roba simile. E se vuole nascondere il fatto che usa i tuoi sogni per certi suoi particolari motivi, può farlo senza difficoltà; basta che sotto ipnosi ti dica di non fare sogni efficaci quando c’è un’altra persona presente. Anzi, mi chiedo perché mi abbia permesso di vederne uno. Sei certo che lui ci creda? Non capisco quell’uomo. Comunque, è difficile per un avvocato mettere dito tra psichiatra e paziente, soprattutto quando lo psichiatra è un pezzo grosso e il paziente è un matto che è convinto che i suoi sogni cambino la realtà… cribbio, non vorrei che questa storia finisse in tribunale! Comunque, non c’è un modo che ti impedisca di sognare per lui? I tranquillanti, magari.
— Non ho la Tessera Farmaceutica, sono in Trattamento Volontario. Deve prescrivermeli lui. E il suo Aumentare può farmi sognare.
— È veramente infrazione della privacy, ma non si può fargli causa… Ascolta. E se tu facessi un sogno che cambiasse lui?
Orr la guardò da dietro una nebbia di sonno e di brandy.