Mentre aspettava di essere messo in comunicazione col ministro della Sanità, Istruzione e Benessere, che era un suo conoscente di vecchia data, Haber disse a Orr: — Perché non ci ha trasferito in un altro continuum, in cui, semplicemente, questo pasticcio non sia successo? Sarebbe stato molto più semplice. E nessuno sarebbe morto. Perché, semplicemente, non ha eliminato gli Alieni?
— Io non scelgo — rispose Orr. — Non l’ha ancora capito? Io seguo.
— Lei segue le mie suggestioni ipnotiche, sì, ma non le segue mai completamente, mai in modo diretto e semplice…
— Non intendevo riferirmi a questo — disse Orr, ma ormai era già in linea il segretario personale di Rantow, il ministro. Mentre Haber parlava, Orr scivolò via; diretto al sotterraneo, senza dubbio, per occuparsi della donna. Niente in contrario. Mentre parlava al segretario e poi al ministro in persona, Haber cominciò a convincersi che ormai le cose cominciavano a mettersi a posto, che gli Alieni erano completamente inoffensivi, e che sarebbe riuscito a convincere Rantow, e, attraverso di lui, il Presidente e i suoi generali. Orr non era più necessario. Haber sapeva cosa occorreva fare, e avrebbe tolto dai guai la propria nazione.
CAPITOLO NONO
Coloro che sognano di banchettare si lamenteranno al loro risveglio,
Era la terza settimana di aprile. Orr aveva dato un appuntamento a Heather Lelache, la settimana prima: dovevano pranzare assieme martedì, da Dave. Ma appena uscì dall’ufficio, capì che non c’era da farci affidamento.
Ormai c’erano troppe memorie diverse, troppe matasse di esperienze vitali, pigiate nella sua mente, e non tentava più di ricordare. Prendeva le cose come venivano. Viveva quasi come un bambino, soltanto tra eventi attuali. Non era più sorpreso di nulla, ed era sorpreso di tutto.
Il suo ufficio era al terzo piano del Bureau della Pianificazione Civile; la sua posizione era la più elevata tra quante ne avesse avute fino a quel momento: era direttore della sezione Forestale Urbana Sudest, dipendente dalla Commissione per la Pianificazione Cittadina. Quel lavoro non gli piaceva, e non gli era mai piaciuto.
Era sempre stato un disegnatore fino all’ultimo sogno di lunedì, che, scambiando tra loro le competenze dei governi federale e statale per venire incontro a qualche piano di Haber, aveva talmente sconvolto il sistema sociale da far diventare Orr un burocrate dell’amministrazione cittadina. Non aveva mai avuto un lavoro, in tutte le sue vite, che fosse pienamente adatto alle sue vere capacità; la cosa in cui riusciva meglio era il «design», la professione dello stilista: la realizzazione di forme e di figure adatte agli oggetti, e questo talento non era mai stato particolarmente apprezzato in nessuna delle sue varie esistenze. Ma questo lavoro, che (ora) svolgeva e odiava da cinque anni, gli era completamente estraneo. E la cosa lo preoccupava.
Fino a questa settimana c’era stata una continuità sostanziale, una coerenza, tra tutte le esistenze scaturite dai suoi sogni. Era sempre stato un disegnatore, aveva sempre abitato in Corbett Avenue. Anche nella vita che era terminata sui gradini di cemento di una casa bruciata, in una città morente di un mondo in rovina, anche in quella vita, fino al momento in cui non c’erano più stati lavori e non c’erano più state case, questi elementi di coerenza si erano mantenuti. E per tutti i susseguenti sogni (o vite), altre cose più importanti si erano mantenute. Era migliorato un poco il clima locale, ma non molto, e l’Effetto Serra era rimasto: un’eredità permanente della metà del secolo precedente. La geografia rimaneva perfettamente stabile: i continenti erano sempre al loro posto. E così i confini nazionali, la natura umana eccetera. Se Haber gli aveva ordinato di sognare una razza umana più nobile, aveva mancato lo scopo.
Ma Haber stava imparando a controllare meglio i suoi sogni. Le ultime due sedute avevano cambiato radicalmente la realtà. Orr aveva sempre il suo appartamento in Corbett Avenue, le stesse tre stanze, con il debole aroma di marijuana del custode; ma lavorava come burocrate in un grande edificio in centro, e il centro della città era cambiato fino a essere irriconoscibile. Era impressionante: pieno di grattacieli come quando non c’era stato crollo nella popolazione, ma i grattacieli parevano molto più durevoli, più belli. Il mondo veniva diretto in modo assai diverso, adesso.
Stranamente, Albert M. Merdle era ancora presidente degli Stati Uniti. Come la forma dei continenti, quell’uomo pareva immutabile. Ma gli Stati Uniti non erano più la potenza di un tempo, né lo erano le altre singole nazioni.
Portland era adesso la sede del Centro di Pianificazione Mondiale, principale organismo della sovranazionale Federazione dei Popoli. Portland, come dicevano le cartoline illustrate, era la Capitale del Pianeta. Aveva una popolazione di due milioni di abitanti. La zona del centro era piena dei giganteschi edifici del Centro di Pianificazione Mondiale: tutti costruiti meno di dodici anni prima, tutti pianificati con cura, circondati da parchi verdeggianti e da corsi alberati. Migliaia di persone, in prevalenza impiegati della Federazione o del Centro, riempivano quei corsi; comitive di turisti di Ulan Bator o di Santiago del Cile passavano in fretta, con il naso puntato in aria, ascoltando le guide turistiche mediante l’auricolare. Era uno spettacolo vivace e imponente: i grandi, bellissimi edifici, i prati tenuti con cura, la folla di persone ben vestite. Aveva, per George Orr, un aspetto molto futuristico.
Non riuscì a trovare il ristorante di Dave, naturalmente. Non riuscì neppure a trovare la Ankeny Street. La ricordava in modo talmente vivido, da tante altre vite, che si rifiutò di accettare, finché non vi giunse, quanto gli diceva la sua attuale memoria: l’assicurazione che Ankeny Street non c’era affatto. Al suo posto s’ergeva fino alle nuvole il grattacielo del SURA, tra aiole e rododendri. Non si prese neppure il fastidio di cercare il Pendleton Building: c’era ancora Morrison Street (un ampio corso, con in centro una fila di aranci piantati di fresco), ma non c’erano edifici neo-Inca lungo di esso, né c’erano mai stati.
Non riusciva neppure a ricordare con esattezza il nome dell’ufficio legale in cui lavorava Heather: si chiamava Forman, Esserbeck e Rutt, o Forman, Esserbeck, Goodhue e Rutt? Andò in una cabina telefonica e cercò nelle pagine gialle. Non c’era elencato nessuno studio con quel nome, ma c’era un tale P. Esserbeck, avvocato. Telefonò a quel numero e chiese, ma laggiù non lavorava nessuna Miss Lelache. Alla fine si fece coraggio e cercò nella guida alfabetica. Nella guida, il nome Lelache non compariva.
Forse esisteva ancora, ma con un cognome diverso, pensò Orr. Sua madre poteva avere rinunciato al nome del marito quando era partito per l’Africa. Oppure, Heather poteva avere conservato il nome del marito quando era rimasta vedova. Non aveva la minima idea di quale potesse essere il nome del marito. Anzi, forse non l’aveva mai portato; molte donne, oggigiorno, non cambiavano nome quando si sposavano, perché ritenevano che la cosa fosse un residuo di epoche di schiavitù femminile. Ma erano ipotesi senza valore. Forse non c’era una Heather Lelache: forse — questa volta — non era mai nata.
Dopo avere contemplato questa ipotesi, Orr contemplò un’altra possibilità. Se mi passasse davanti in questo momento, cercando di me, si disse, riuscirei a riconoscerla?
Heather era di colore scuro. Un colore deciso e scuro, come ambra del Baltico, o come una tazza di tè di Ceylon, carica. Ma per strada non passava alcuna persona di pelle scura. Nessuno che avesse la pelle nera, o bianca, gialla, rossa. Venivano da tutte le parti del mondo, per lavorare al Centro di Pianificazione Mondiale o per visitarlo: Thailandia, Argentina, Ghana, Cina, Irlanda, Tasmania, Libano, Etiopia, Vietnam, Honduras, Lichtenstein. Ma tutti indossavano gli stessi abiti: calzoni, tunica, mantellina da pioggia; e sotto gli abiti erano tutti dello stesso colore. Erano grigi.