Erano le 5 e 6 minuti.
Alle 5 e 11, Haber schiacciò il grosso pulsante nero che recava la scritta SPENTO, sul quadro dei comandi dell’Aumentore. Alle 5 e 12, vedendo riapparire i fusi e le alte punte del sonno-s, si piegò sul paziente e pronunciò con chiarezza il suo nome, tre volte.
Orr sospirò, allargò il braccio in un gesto largo e incontrollato, spalancò gli occhi e si destò. Haber gli staccò la cuffia dal cuoio capelluto con pochi, abili gesti. — Si sente bene? — chiese, in tono amichevole e sicuro di sé.
— Sì.
— E inoltre ha sognato. Ma questo è tutto ciò che posso dirle. Può raccontarmi il sogno?
— Un cavallo — si affrettò a dire Orr, ancora stordito per la brusca uscita dal sonno. Si rizzò a sedere. — Un sogno che riguardava un cavallo. Quel cavallo lì — e indicò la riproduzione fotografica murale, grossa come tutta la parete, che decorava l’ufficio di Haber: la fotografia del famoso stallone Tammanny Hall, lanciato al galoppo in una radura erbosa.
— E cosa faceva, il cavallo, nel sogno? — chiese Haber, compiaciuto. Non si era aspettato che l’ipnosuggestione riuscisse a influenzare così chiaramente il contenuto del sogno, dato che si trattava del primo rapporto ipnotico con quel paziente.
— Il cavallo… no, io; attraversavo il prato, e all’inizio il cavallo era lontano da me, lo vedevo nella distanza. Poi si è precipitato al galoppo nella mia direzione, e io a un certo punto ho capito che mi avrebbe travolto. Tuttavia non avevo paura. Probabilmente pensavo di riuscire ad afferrare la briglia, o di potergli salire in groppa e cavalcarlo. Sapevo che in realtà non avrebbe potuto farmi del male, perché era il cavallo della fotografia, e non un cavallo vero. Era una specie di gioco… Dottor Haber, mi scusi, ma non le sembra che quella fotografia abbia qualcosa di… strano?
— Be’, qualcuno la giudica un po’ eccessiva per l’ufficio di uno psicologo, un po’ opprimente. Un simbolo sessuale, formato naturale, proprio di fronte al divano! — E rise.
— C’era già, un’ora fa? Voglio dire, non c’era forse il panorama di Monte Hood, quando io sono entrato… prima che sognassi il cavallo?
Oh Cristo era davvero Monte Hood il tizio aveva ragione
Non era Monte Hood non poteva essere Monte Hood era un cavallo era un cavallo
Era una montagna
Era un cavallo era un cavallo era un cavallo…
Fissava George Orr a occhi sbarrati, stupefatto, e dovevano essere passati vari secondi dalla domanda; non poteva farsi sorprendere così, doveva ispirare fiducia, e sapeva come rispondere.
— George, a quanto le dice la sua memoria, la fotografia della parete era il panorama di Monte Hood?
— Sì — fece Orr, col suo tono triste, ma risoluto. — Certo. Era Monte Hood. Con la neve.
— Mmmm -annuì con imparzialità, meditabondo. Il terribile brivido di gelo che aveva provato alla bocca dello stomaco era passato.
— Perché, lei ricorda qualcosa di diverso?
Gli occhi di quell’uomo, dal colore così indefinibile, eppure così chiari e diretti nel guardare: erano gli occhi di uno psicotico.
— No, mi spiace dirlo, ma la risposta è no. È Tammanny Hall, il vincitore dei tre Premi nell’ottantanove. Sento la mancanza delle corse, è una vergogna che per i nostri problemi alimentari abbiano dovuto eliminare le specie inferiori. Naturalmente, un cavallo è un clamoroso anacronismo, ma la fotografia mi piace; ha vigore, forza… la totale realizzazione della propria personalità sotto forma di un animale. È una specie di ideale di ciò che lo psichiatra vuole ottenere, in termini psicologici umani; un simbolo. Ad esso mi sono ispirato nel suggerirle il contenuto del sogno: ovviamente, mi era caduto l’occhio sulla fotografia… — Haber lanciò un’occhiata di traverso alla riproduzione. Certo, che era un cavallo. — Comunque, mi ascolti: se vuole sentire anche l’opinione di una terza persona, possiamo chiedere a Miss Crouch: lavora con me da due anni.
— Dirà che era un cavallo — fece Orr, in tono calmo ma dolente. — Lo è sempre stato. Dopo il mio sogno. Era un cavallo. Ho creduto che forse, visto che era stato lei a suggerirmi il sogno, forse anche lei, come me, poteva conservare il doppio ricordo. Ma ora vedo che non è affatto così. — E i suoi occhi, che ora non fissavano più in basso, si puntarono nuovamente su Haber con la loro chiarezza, la loro carica di sopportazione, la loro tranquilla e disperata richiesta di aiuto.
Quell’uomo era malato. Bisognava curarlo. — Vorrei che lei tornasse da me, George. Domani, se le è possibile.
— Be’, il lavoro…
— Si faccia dare un’ora di permesso, e venga da me alle quattro. Lei è in Terapia Volontaria. Lo comunichi al suo capufficio, e non provi nessun falso pudore nel dirglielo. Prima o poi, l’82 per cento della popolazione finisce in Terapia Volontaria, per non parlare del 31 per cento che finisce in quella obbligatoria. Quindi, venga da me alle quattro, e riprenderemo a lavorare insieme. Otterremo certamente dei buoni risultati, lo sa anche lei. Per ora, eccole una ricetta per del meprobamato: terrà un po’ in sordina i suoi sogni, ma senza eliminare lo stadio-d. Può richiedere all’automatico una nuova dose ogni tre giorni. Se le succede di fare un sogno, o qualsiasi altra esperienza, che la spaventa, telefoni a me, giorno e notte. Ma non credo che le possa succedere, se prende il meprobamato; e se è disposto a lavorare seriamente con me, in poco tempo potrà fare a meno dei farmaci. Risolveremo tutto questo suo problema dei sogni, lo metteremo sul tappeto, in chiaro. D’accordo?
Orr prese la ricetta su scheda perforata. — Sarebbe un enorme sollievo — disse. Sorrise: un sorriso un po’ sforzato, infelice, ma con una sfumatura ironica. — Ah, a proposito del cavallo… — fece.
Haber, che lo superava di tutta la testa, lo fissò.
— Mi ricorda lei — disse Orr.
Haber lanciò subito un’occhiata alla riproduzione. Era vero. Grosso, robusto, irsuto, color castano rossiccio, lanciato su di te al galoppo…
— Forse — chiese, in tono simpatico e perspicace, — il cavallo del sogno assomigliava a me?
— Certo, le assomigliava — disse il paziente.
Quando Orr fu uscito, Haber si sedette e rimase a fissare un po’ allarmato la riproduzione fotografica di Tammanny Hall. Davvero, era troppo grossa per l’ufficio. Accidenti, perché non si poteva permettere un ufficio con una vera finestra!
CAPITOLO TERZO
Coloro che sono aiutati dal Cielo sono da noi chiamati figli del Cielo. Essi non imparano attraverso lo studio. Essi non elaborano mediante il lavoro. Essi non ragionano servendosi della ragione. Arrestare la comprensione a ciò che non può essere compreso è un grande conseguimento. Chi non saprà farlo verrà distrutto dalla Falce dei Cieli.