Cupa in volto, l’Ombra di Seta si diede alla fuga per salvarsi la vita, dirigendosi verso una vicina bottega dotata di una scala esterna.
Se davvero mio padre era un grande mago e mia madre era un drago, sarebbe logico aspettarsi che io fossi qualcosa di più grandioso di una semplice ladra, pensò fra sé con rabbia, per quella che era forse la decimillesima volta. Dove sono la mia posizione sociale elevata, la mia ricchezza e il mio potere? Perché non posso lanciare incantesimi o trasformarmi in un drago?
«Hah! Ti ho colto in fallo!» esclamò il vecchio cuoco, girandosi di scatto. «Ragazzo, ci tieni ad avere ancora il tuo lavoro, domani?»
Lo sporco garzone di cucina s’immobilizzò, stringendo contro il grembiule macchiato un cesto pieno di scarti e di avanzi marci, e fissò Phaeron con un’aria di assoluto stupore.
«Cosa?» ribatté.
Il cuoco avanzò verso di lui, zoppicando sulla gamba di legno e brandendo una logora mannaia in una mano tozza e pelosa.
«E adesso mi rispondi con un “cosa”?» chiese, con voce pericolosamente bassa. «Ci tieni al tuo naso, vero?»
La mannaia si sollevò con aria minacciosa, e Naviskurr si rese conto della portata dell’errore commesso.
«Ah, no, Mastro Phaeron, signore… ah, cioè, sì, ci tengo, ma non volevo fare nulla di male, davvero, e… e…»
A mano a mano che il vecchio cuoco avanzava, la voce del ragazzo salì di tono fino a trasformarsi in un terrorizzato stridio quando la lama d’acciaio lucente e freddo gli sfiorò il naso.
«… e giuro davanti a tutti gli dei che non so proprio cosa ho fatto per offenderti, cosa ho fatto di sbagliato. Scusami, scusami, signore, cosa ho fatto?»
«Huh», sbuffò Phaeron, in tono disgustato. «Questa è la stoffa dei giovani che mi mandano ultimamente. Questa è l’eloquenza delle brillanti nuove generazioni che ci salveranno tutti!»
Il cuoco volse le spalle al ragazzo, poi tornò a girarsi di scatto con una mossa tanto rapida e fluida che Naviskurr strillò di terrore, e puntò la mannaia in direzione di altri tre cesti che il ragazzo aveva già posato per terra.
«Quante volte ti ho ripetuto che non bisogna addossare nulla a quella porta?» ringhiò. «Nulla!»
Naviskurr guardò nella direzione indicata, sbatté le palpebre con perplessità, poi posò il quarto cesto dove si trovava e si affrettò a spostare gli altri tre.
«Chiedo scusa, Mastro Phaeron, signore…» borbottò, «ma questa è soltanto una vecchia porta. Non l’apriamo mai, non la usiamo mai…».
Mentre parlava trascinò di lato i cesti, poi si raddrizzò con un grugnito e rimase a fissare la vecchia porta rinforzata con chiodi di ferro posta nell’angolo più squallido delle cucine dell’Affittacamere dell’Uccello della Pioggia, osservando la scrostata vernice azzurra applicata alle larghe e rozze assi decorate da un’incisione che, doveva ammetterlo, era davvero notevole. Essa raffigurava il volto lungo e nobile di un uomo barbuto dal naso aquilino che Naviskurr aveva ribattezzato fra sé «il Vecchio Mago Sorpreso».
«Si può sapere perché dobbiamo tenerla sempre sgombra?» seguitò, fissando con aria accigliata il perpetuo, astuto sorriso dell’incisione.
In quel momento essa tremolò e si accese di una luce che il ragazzo non vi aveva mai visto, e prima che lo sfrontato garzone avesse il tempo di indietreggiare o di urlare per la paura, la faccia parve protendersi in avanti, uscendo dalla porta.
Mentre deglutiva a fatica e indietreggiava, facendo cenni frenetici quanto inutili in direzione di Mastro Phaeron, Naviskurr vide che la faccia era attaccata al corpo di un uomo dal passo spedito, un vecchio dal naso aquilino, con la barba e i capelli lunghi, avvolto in vesti non troppo pulite, che fluì fuori dalla porta chiusa, lasciandola intatta e ancora adorna della sua incisione.
Allegri occhi fra il grigio e l’azzurro sovrastati da scure sopracciglia scoccarono una rapida occhiata allo stupefatto garzone e l’uomo gli indirizzò una strizzata d’occhio prima di rivolgere un cenno del capo e un gesto di saluto al vecchio Phaeron.
«Forn», disse, «tuo figlio se la sta cavando egregiamente a Suzail, e pare proprio che si ritroverà sposato entro la primavera, se non starà attento!».
Il vecchio cuoco rimase a bocca aperta per la sorpresa e sgranò gli occhi per la gioia… e nel frattempo il visitatore dal passo spedito uscì dalla cucina, con una pipa ricurva che fluttuava sulla sua scia come una sorta di paziente serpente.
«Co… cosa… chi…» balbettò Naviskurr.
Incrociando le braccia sul petto, Mastro Phaeron rivolse al garzone un ampio sorriso.
«È per questo che teniamo sgombra quella porta, ragazzo», spiegò, in tono trionfante. «I potenti arcimaghi devoti a Mystra non amano ritrovarsi immersi fino al ginocchio nei rifiuti di cucina.»
«Uh…» farfugliò Naviskurr, poi deglutì a fatica e chiese con voce fievole: «Mystra? Arcimaghi? Chi era quell’uomo?».
«Soltanto un mio vecchio amico», spiegò Phaeron in tono sbrigativo, tornando a voltarsi verso gli spiedi sfrigolanti. «Nessuno che tu conosca. Si chiama Elminster».
E si concentrò sugli arrosti con una risatina, preparandosi all’inevitabile tempesta di domande.
Invece, gli giunse all’orecchio un tonfo morbido e alquanto umido. Dopo aver rigirato il sugo sempre più denso e aver leccato con aria riflessiva il fumante cucchiaio di legno, Phaeron si volse per vedere in che modo il pigro garzone avesse prodotto quel suono… e scoprì che Naviskurr era sdraiato sui quattro cesti di rifiuti, gli occhi vacui fissi sui mestoli che pendevano dalle travi del soffitto: quello che pareva essere il garzone meno promettente che lui avesse mai avuto era svenuto.
Sospirando, Phaeron agitò il cucchiaio in direzione del ragazzo, pensando che forse qualche goccia di sugo bollente lo avrebbe fatto rinvenire… o forse no. Ah, il possente valore dei giovani…
Era evidente che gli apprendisti di sua madre le avevano mentito… doveva essere così, e tuttavia essi erano stati in preda all’ira, decisi a provocarla, e non erano stati attenti a soppesare le parole, così come in seguito si erano comportati come se fossero stati consapevoli di aver detto cose che avrebbero invece dovuto tacere. Uno di essi aveva tentato di farle credere che erano stati tutti ubriachi e avevano detto un mucchio di sciocchezze, mentre altri avevano invece cercato di ridurre lei in stato di ubriachezza, per scoprire con esattezza che cosa le avevano rivelato e cosa lei ricordasse.
Accoccolata su un tetto marcio e impraticabile, che avrebbe fatto cadere delle tegole proprio davanti agli uomini della Guardia se solo lei si fosse azzardata a muoversi, Narnra indirizzò alcune furenti imprecazioni alla luna che si spostava nel cielo.
Aveva riesaminato quei ricordi innumerevoli volte, e sapeva… lo sapeva… che Goraun e gli altri apprendisti tagliatori di gemme le avevano detto la verità, o almeno quella che avevano ritenuto essere tale. Le ci era voluto un intero anno di cauti sondaggi per avere la certezza che essi stessero parlando in senso letterale quando affermavano che la maga Maerjanthra Shalace, meglio nota in tutta Waterdeep come Lady Maerjanthra delle Gemme, gioielliera della nobiltà, era un vero drago con scaglie e ali, e non soltanto quel genere di donna che veniva definita un «drago» a causa del temperamento irascibile e dell’indole imperiosa e temibile.
E chi era il potente mago che l’aveva generata? Questo non glielo avevano mai detto.
«Tre monete d’oro», affermò una voce proveniente dal basso, quando un altro ufficiale della Guardia venne a raggiungere quelli che già stavano sbirciando nel vicolo. I due che erano a metà della scala che portava al nascondiglio di Narnra si fermarono e si voltarono, incuriositi da una strana nota nella sua voce.