Intanto la Freccia Azzurra si era mossa lentamente, accompagnata dallo scalpitio dei cavalli dei cow-boys e degli indiani, che facevano crepitare la neve gelata. Davanti alla locomotiva faceva da battistrada…
— Spìcciola! — dirà qualcuno.
No. amico, ti sei sbagliato. Spìcciola non parte. Spìcciola è rimasto sulla soglia della casa abbandonata.
— Non vengo con voi, — aveva detto timidamente — voglio trovare Francesco.
— Ma ce ne sono tanti!
— Lo so, ma io voglio ritrovare il nostro amico.
Fedele fino in fondo, il piccolo cane stette a guardare tristemente la Freccia Azzurra, che si allontanava a velocità moderata, con i fari accesi, e i finestrini sembravano una lunga fila di lucciole.
Davanti alla locomotiva faceva da battistrada il Motociclista, che teneva aperto sul manubrio, come su un leggio, il taccuino con gli indirizzi dei bambini. Sulla sua testa svolazzava il Pilota Seduto.
— Buon viaggio, — gridò debolmente Spìcciola. Ma nessuno potè sentirlo. Spìcciola si accucciò sulla coda e si asciugò le lagrime con una zampa.
Storia di Francesco
Francesco aveva dieci anni, faceva la quarta elementare e aiutava il padre a vendere i giornali. Il padre di Francesco, infatti, era uno «strillone»: di quelli che si mettono all'angolo di una piazza o a una fermata del tram, con un fascio di giornali sotto il braccio, e gridano le notizie più importanti, per invogliare la gente a comprare l'ultima edizione.
All'inizio di quell'inverno il babbo si ammalò. Il fascio dei giornali da vendere toccò tutto a Francesco. La legge non permette ai bambini di lavorare e gli «strilloni», assai gelosi del loro mestiere, sulle prime non videro di buon occhio il piccolo giornalaio. Ma ebbero pietà della famiglia del loro collega ammalato e dissero a Francesco: — Conserverai il posto a tuo padre, fin che guarirà.
Quando aveva terminato di vendere i giornali Francesco, prima di tornare a casa, correva a dare un'occhiata al trenino elettrico esposto nella vetrina della Befana. Avrebbe tanto desiderato di possederlo, ma doveva portare a casa tutti i suoi guadagni, fino all'ultimo centesimo.
La mattina, prima di andare a scuola, Francesco doveva preparare la colazione per i suoi due fratelli più piccoli, perché la mamma usciva assai presto, per andare a servizio in casa di certi signori.
Così, tra la scuola, i giornali e i fratellini, egli aveva ben poco tempo per pensare a giocare.
Verso Natale il babbo si aggravò, e pochi giorni prima dell'Epifania morì.
La famigliola dovette abbandonare l'alloggio, perché l'affitto, adesso, era diventato troppo caro. Francesco e la mamma caricarono le loro poche masserizie su un carrettino, ci misero sopra i due più piccoli, e s'avviarono verso la periferia, dove la città si perde nei campi. Là sorgevano certe baracche di legno e di lamiera, con le finestre senza vetri, tappate con vecchi giornali e brandelli di manifesti. In una di quelle baracche andarono ad abitare.
Il ragazzo aveva gettato via le sue vecchie scarpe rotte, dove l'acqua entrava da tutte le parti, come in una barca affondata, e si era messo le scarpe del babbo. Erano vecchie anche quelle, perché avevano fatto tutta la guerra. Non mancava qualche buco sotto la suola, ma la tomaia era sana. I piedi di Francesco ci ballavano fin troppo, ma almeno stavano all'asciutto. (E il cambio delle scarpe, probabilmente, spiega perché Spìcciola, quella famosa notte, non riuscì più a seguire la traccia di Francesco…)
Del resto, anche se per un miracolo Spìcciola fosse riuscito a raggiungere la nuova abitazione del suo amico, la brutta baracca di legno e di lamiera, quella notte non ci avrebbe trovato Francesco.
Dopo la morte del babbo, infatti, egli non aveva potuto proseguire la sua carriera di piccolo «strillone»: non aveva ancora l'età per ottenere una licenza per conto suo. Perciò si era cercato un altro lavoro e l'aveva trovato, in un piccolo cinematografo del centro. Con un berretto azzurro sul ciuffo e con una cassettina al collo, Francesco girava tra gli spettatori, negli intervalli tra un tempo e l'altro del film, a vendere caramelle e gomme da masticare. Il cinema chiudeva assai tardi, dopo la mezzanotte, ma Francesco doveva restarvi ancora un'oretta a scopare il pavimento, che sembrava un cimitero di mozziconi, cartacce e gusci di noccioline.
Il mattino, a scuola, Francesco appariva distratto e pieno di sonno.
Il maestro, che lo conosceva per un ragazzo intelligente e studioso, non si dava pace a vederlo mezzo addormentato, con la testa piegata sul libro di lettura.
— Francesco, — diceva qualche volta severamente — stamattina non ti sei lavato la faccia. Va' subito in gabinetto e cerca di svegliarti con un po' d'acqua fresca.
Francesco si alzava confuso, passava tra i banchi senza guardare i compagni che sghignazzavano alle sue spalle e faceva quel che il maestro gli aveva ordinato, senza protestare.
Sarebbe morto, piuttosto che raccontare i suoi guai. Aveva il suo orgoglio, Francesco. Così nessuno poteva sospettare che quel ragazzino gracile e pallido, con un eterno ciuffo spettinato tra gli occhi, mantenesse già la famiglia col suo lavoro.
La sera dell'Epifania, Francesco era andato, come il suo solito, al Cinema Speranza, si era messo in capo il berretto azzurro dell'uniforme e si era allacciata al collo la cassetta delle caramelle. Mancava ancora qualche minuto al primo intervallo, e Francesco, in piedi, con la schiena appoggiata alla parete, si godeva lo spettacolo.
Sullo schermo bianco passavano due automobili lanciate a folle velocità. Nella prima c'erano quattro banditi con le rivoltelle in pugno. Nella seconda i poliziotti che li rincorrevano. Francesco sperava ardentemente che i banditi fossero raggiunti. Gli pareva di esserci anche lui, sulla macchina della polizia, e gridava dentro di sé:
— Dài! Forza che li acchiappiamo! Forza! Prendi la curva in yelocità, non rallentare! Attento, attento che sparano!
Uno dei banditi, infatti, si era sporto dal finestrino della macchina e stava prendendo di mira il poliziotto che reggeva il volante.
— Attento! — gridavano i ragazzi della sala.
Ma il poliziotto, sullo schermo, non poteva certo sentire. Ed anche se avesse sentito, non avrebbe potuto abbandonare il suo posto.
Proprio in quel momento finì il primo tempo, tornò la luce e Francesco si lanciò tra le file di poltrone, gridando:
— Caramelle! Menta al ghiaccio! Caramelle!
Durante il secondo tempo dovette scopare gli uffici del direttore del cinema, e non potè vedere come fosse andata a finire la sparatoria. Il film fu ripetuto ancora una volta dall'inizio, ma Francesco potè assistere solo al finale, e non riuscì a capire nulla. Gli rimase invece negli occhi il viso spaventevole del bandito che prendeva di mira l'autista con la sua rivoltella. Non riusciva a cacciarlo dalla mente, per quanto si sforzasse di pensare ad altro.
Rimasto solo nella sala per la pulizia notturna, Francesco si guardava continuamente attorno, come se temesse di vedersi comparire alle spalle, da un minuto all'altro, il brutto ceffo del bandito. Era una paura sciocca, come tutte le paure. Ma la paura ha questo di brutto: che più è sciocca e più fa paura.
Anche quando ebbe finito il suo lavoro, e si fu avviato tutto solo, sotto la neve, per tornare alla sua baracca, Francesco dovette
mettersi una mano sul petto per comprimere il cuore che sembrava volesse balzar fuori. Batteva così forte, che il rumore gli riempiva le orecchie e gli impediva di ascoltare. Se non fosse stato così spaventato, avrebbe certamente udito un leggero fischio che usciva dall'ombra di un portone. Avrebbe fatto un salto, si sarebbe messo a correre. Ma non udì nulla. Sentì solo una mano che gli tappava la bocca ed un braccio che gli stringeva il collo. Qualcuno lo attirò violentemente nel portone.