Выбрать главу

— Finalmente ci si vede. Ho l'impressione di essere rimasto per dei mesi sepolto in una galleria. Bene, quando si riparte? Io sono pronto.

— Calma, calma — intervenne il Capotreno, pulendosi gli occhiali nel fazzoletto. — Senza il mio ordine non parte nessuno.

— Contate le righe che avete sul berretto — disse una terza voce — e vedrete chi è che comanda, qui.

Il Capotreno contò le proprie righe, che erano quattro, e contò quelle del Capostazione, che erano cinque. Poi sospirò, si rimise gli occhiali e se ne stette zitto. Il Capostazione camminava avanti e indietro per la vetrina, dondolando il bastoncino col semaforo che gli serviva per dare le partenze. Sul piazzale della stazione era schierato un reggimento di bersaglieri di piombo, con in testa la fanfara e un colonnello. Più a destra c'era un'intera batteria di cannoni, con un generale pronto ad ordinare il fuoco.

Dietro alla stazione si stendeva invece una pianura verde, interrotta da strane montagne che parevano tagliate nel panettone: nella pianura erano accampati i pellerossa, attorno al loro capo Penna d'Argento, mentre dalle cime delle montagne si affacciavano i cow-boys a cavallo, pronti a lanciare i loro lazos.

Sospeso a mezz'aria sopra il tetto della stazione c'era un aeroplano. Il pilota si sporgeva dalla carlinga a guardare. Bisogna dire che si trattava solo di un pilota seduto perché così l'aveva fatto il fabbricante, e in piedi non si sarebbe potuto alzare perché non aveva gambe. Accanto all'aeroplano era appesa una gabbia rossa con un canarino, che si chiamava appunto il Canarino Giallo: se si faceva dondolare la gabbia, il canarino trillava.

Nella vetrina si trovavano ancora: una dozzina di bambole di tutte le forme, un orso giallo, un cane di pezza di nome Spìcciola, una scatola di pastelli, una scatola del meccano, un teatrino con tre marionette e un veliero a due alberi: sul ponte di comando passeggiava nervosamente il capitano, al quale per distrazione avevano dipinto

la barba solo su metà della faccia, tanto che lui doveva cercare di non mostrare mai la metà sbarbata per non fare brutta figura.

Il Capostazione e il Capitano Mezzabarba si guardavano di traverso, fingendo di non vedersi: si capiva benissimo che erano gelosi l'uno dell'altro, e chissà, forse erano sul punto di sfidarsi a duello per disputarsi il comando supremo della vetrina.

Tra le bambole si erano già formati due partiti: uno sospirava per il Capostazione, l'altro lanciava occhiate tenere a Mezzabarba. e solo una bambolina nera, con gli occhi più bianchi del latte, guardava il Pilota Seduto, e nessun altro.

Il cane di pezza, dal canto suo, avrebbe voluto abbaiare, scodinzolare e saltellare per la gioia ma non poteva farlo per tutti e tre, e non voleva scegliere un padrone solo per non offendere gli altri due: perciò se ne stava zitto e immobile, con un'aria un po' stupita. Il suo nome era scritto in rosso sul collare: Spìcciola. Forse si chiamava così perché era tanto piccolo?

Ma successe qualcosa che fece dimenticare le gelosie e le rivalità. La Befana alzò la saracinesca e il sole entrò nella vetrina come una cascata d'oro, suscitando in tutti un terribile spavento, perché nessuno lo aveva mai visto prima.

— Corpo di mille balene cieche! — urlò il Capitano Mezza-barba. — Che cos'è questo ciclone?

— Aiuto! Aiuto! — squittirono le bambole, svenendo una addosso all'altra. Il generale fece subito piazzare i cannoni in direzione del nemico, per respingere ogni attacco. Solo Penna d'Argento non si scompose. Si tolse di bocca la lunga pipa, come faceva soltanto nelle grandi occasioni, e disse:

— Giocattoli bianchi, niente paura. Stare Grande Spirito Sole, stare amico. Guardate come piazza allegra perché sole arrivato.

Tutti guardarono fuori della vetrina. La piazza infatti scintillava come se ogni cosa ridesse. La neve sui tetti sembrava infuocata. Un dolce calore entrava per i vetri polverosi.

— Corpo di mille balene ubriache — borbottò ancora Mezzabarba — io sono un lupo di mare, non un lupo di sole.

Le bambole, chiacchierando festosamente, si misero senz'altro a prendere la tintarella.

Davanti alla vetrina, però, c'era un po' d'ombra. C'era qualcuno che non lasciava passare il sole. L'ombra andava a cadere sul Macchinista, che si arrabbiò un poco:

— Ecco, proprio a me doveva toccare. Tutti si riscaldano e io

no.

Cercò di capire la ragione dell'ombra molesta e vi fissò gli occhi acuti, abituati a fissare per ore le rotaie, durante i lunghi viaggi. Gli occhi del Macchinista incontrarono un altro paio d'occhi, grandi, spalancati come finestre.

Vi si poteva guardar dentro, come si guarda dentro una casa quando non ci sono le tendine sui vetri. E dentro, c'era soltanto una grande tristezza.

— Strano — pensò il Macchinista della Freccia Azzurra — avevo sempre sentito dire che i bambini sono allegri e non fanno che ridere e giocare dalla mattina alla sera. Questo non mi sembra allegro per nulla. Che cosa gli avranno fatto?

Il bambino triste rimase per un pezzo a guardare nella vetrina, ma chissà poi se vedeva davvero ciò che guardava? I suoi occhi difatti traboccavano di lagrime, e ogni tanto una lagrima più grossa scendeva giù per la guancia e si infilava nel naso o fra le labbra. Nella vetrina tutti trattennero il fiato: non avevano mai visto niente del genere, e la cosa li stupiva assai.

— Corpo di mille balene bagnate — borbottò il Capitano Mezzabarba — segnerò l'avvenimento sul giornale di bordo.

Finalmente il bambino si asciugò gli occhi con la manica della giacchetta, si avvicinò alla porta della bottega, posò la mano sulla maniglia e spinse.

Si udì lo squillo roco di un campanello, che sembrava lamentarsi e chiamare aiuto.

Francesco

Signora baronessa, c'è qualcuno in negozio — chiamò la serva.

La Befana, che era salita in camera sua a pettinarsi, scese velocemente la scaletta, continuando ad appuntarsi i capelli con le forcine che teneva tra le labbra.

— Chiunque sia — borbottò — perché non chiude la porta? Non ho udito il campanello, ma ho sentito subito la corrente d'aria.

Inforcò gli occhiali per darsi importanza ed entrò nella bottega a piccoli passi lenti, come devono fare le vere signore, soprattutto se sono quasi baronesse; ma poi, vedendo il bambino poveramente vestito che le stava davanti e si rigirava tra le mani un baschetto azzurro, capì che non era il caso di fare tante cerimonie.

— Ebbene? Che c'è? — domandò con fare brusco come per dire: spicciati perché non ho tempo da perdere.

— Ecco… Signora… — mormorò il bambino.

Nella vetrina erano tutt'orecchi. ma non riuscirono a sentire.

— Come ha detto? — bisbigliò il Capotreno.

— Ssst! — fece il Capostazione — non fate chiasso.

— Ragazzo mio — esclamò la Befana, che si sentiva scappare la pazienza, come ogni volta che doveva parlare con gentucola che

non sapeva nulla dei suoi titoli nobiliari — ragazzo mio, il tempo è prezioso. Dunque sbrigati, oppure lasciami in pace e scrivimi piuttosto una bella lettera.

— Ecco, signora, io le ho già scritto — disse il bambino tutto d'un fiato per non perdere il coraggio.

— Ah sì? E quando?

— Quasi un mese fa.

— Ora vedremo. Come ti chiami?

— Monti Francesco di Giuseppe.

— L'indirizzo?

— Via Garibaldi, 18.

— Hm… Monti, Monti… Ecco, Monti Francesco. Esatto, mi hai scritto ventitre giorni fa, chiedendomi in regalo un treno elettrico. E perché soltanto un treno? Avresti potuto chiedermi anche un aeroplano, o un dirigibile, o magari un'astronave interplanetaria.

— Ma a me piace il treno, signora Befana.