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— Francesco — ripete la Befana. — Ma io conosco quel ragazzo. Purtroppo non è tra i miei migliori clienti. Capisce quello che voglio dire? Una famiglia povera, pochi soldi in tasca… Come si fa? Io vorrei vedere tutti contenti. Ma non è facile, al giorno d'oggi, mi spiego? Verrò immediatamente con lei alla polizia.

Dieci minuti dopo la Befana e la guardia notturna si presentavano all'agente di servizio.

— Vorremmo parlare con il commissario — disse la Befana.

— A quest'ora? Lei sogna. Il commissario verrà in ufficio alle

nove.

— Lo chiami subito.

— Chiamarlo? Ma lei è pazza.

La Befana stavolta perdette la pazienza.

— Pazza a me? Misuri le parole, sa. Io sono quasi baronessa, per sua norma. E se lei non chiama subito il commissario se ne pentirà per il resto dei suoi giorni.

Insomma, lo strapazzò di santa ragione. Il povero agente dovette chiamare il commissario, lanciando occhiate terribili alla guardia notturna, che si fregava le mani di nascosto. Il commissario arrivò con gli occhi pieni di sonno che quasi non ci vedeva. La Befana maltrattò un tantino anche lui.

— Commissario bello, come si permette di tenere in guardina un povero ragazzo per tutta la notte?

— Ma io non ho tenuto nessuno in nessun posto. Il ragazzo è rimasto qui in attesa di interrogatorio.

— Ah sì? Allora lo interroghi. E faccia in fretta, perché non vedo l'ora di andare a letto.

Un agente andò a svegliare Francesco. Il povero ragazzo aveva le ossa rotte dalla stanchezza. Come riconobbe la Befana, un brivido gli corse per la schiena.

Essa era venuta certamente per accusarlo! Doveva-averlo visto tante volte, mentre guardava nella vetrina. Forse la Befana pensava che fosse stato lui a preparare il colpo.

— Signora, io non ho toccato nulla — implorò — sono stato io a chiamare le guardie.

— Proprio così — disse la Befana, con energia — e adesso che le cose sono chiare, andiamo.

— Un momento — intervenne il commissario — come sa che le cose stanno «proprio così»? Questo ragazzo può mentire. Lo abbiamo sorpreso in compagnia di due ladri tra i più pericolosi della città.

— Mentire? Sono forse diventata tanto vecchia da non capire quando un ragazzo dice la verità e quando racconta una bugia? Questo ragazzo mi ha salvato il negozio e lei lo ficca in prigione invece di dargli una ricompensa. Bella giustizia. Ma ci penserò io, a ricompensarlo. Andiamo, dico.

Il commissario allargò le braccia. Con quella terribile vecchietta non c'era proprio nulla da fare. Essa prese per mano Francesco, lanciò un'occhiataccia agli agenti, che si ripararono gli occhi per paura di restare fulminati, e marciò verso la porta d'uscita. Le sentinelle le fecero il saluto come se fosse un generale: del resto, in quel momento la Befana aveva il passo marziale e superbo dei più grandi generali della storia.

La guardia notturna, per la contentezza, montò sulla bicicletta con troppo slancio e cadde dall'altra parte nella neve.

— Si è fatto male? — domandò la Befana.

— Non è nulla, è tutta allegria — disse la guardia. E salutato Francesco baciò la mano della Befana, come si fa con le signore, e si allontanò.

— Ragazzo simpatico — sentenziò la Befana, guardandosi la mano che lui aveva baciata. — Sa come ci si comporta con una vera signora.

L'altra mano stringeva la manina di Francesco, tutta sudata per l'emozione.

Non era poi così cattiva la Befana: era stata lei a liberarlo, ed ora lo teneva per mano e camminava con lui per la città, come una brava nonna, un po' severa ma affettuosa.

La serva non credeva ai propri occhi, quando li vide arrivare. Preparò subito una terza tazza di caffè e tolse dall'armadio un vaso di vetro dove stavano da anni certi vecchi biscotti risecchiti. Erano duri come il cemento, ma i denti di Francesco erano più duri, e continuarono a macinare finché nel vaso non rimasero nemmeno le bricciole.

— A vederti mordere quei biscotti quasi quasi mi rispuntavano i denti per l'invidia — mormorò la Befana commossa.

Francesco la guardò sorridendo. Poi si alzò.

— Devo tornare a casa — disse. — La mamma starà in pensiero.

La Befana si grattò un orecchio.

— Vorrei farti un regalo — disse — ma stanotte ho proprio dato fondo al magazzino. Non ci sono rimasti che i topi. So che ti piaceva quel bel treno, la Freccia Azzurra, ma quello, purtroppo, è scappato per conto suo.

— Non importa — disse Francesco sorridendo — tanto non avrei tempo di giocare. Devo lavorare, sa? Ho un impiego in un cinematografo.

— Senti — disse la Befana — è tanto tempo che penso di prendere un commesso per il mio negozio. Sai, uno che tenga in ordine i giocattoli, che apra la posta, che faccia i conti. A dire la verità, la vista comincia a mancarmi, non sono più così brava come una volta a lavorare. Vuoi essere il mio commesso?

Francesco si sentì mancare il respiro per la felicità.

— Il commesso della Befana! — esclamò.

— Il commesso di negozio naturalmente. Non penserai che ti mandi in giro sulla scopa a portare i doni alla clientela.

Francesco si guardò attorno. Il negozio gli parve bellissimo, anche con gli scaffali ingombri di cartacce e con la vetrina vuota.

— Certo che…

— Allora d'accordo — disse la Befana. — Domani prenderai servizio.

Francesco la ringraziò e la salutò. Salutò gentilmente anche la serva. Teresa era un tantino gelosa, perché avrebbe dovuto dividere con un altro i favori della padrona; ma non seppe tenere il broncio al ragazzo che la guardava con tanta fiducia, e gli restituì il sorriso.

— Aspetta — disse la Befana. — Ti chiamerò una carrozza. Non voglio che tu ti buschi un raffreddore, adesso che sei al mio servizio.

Anche la carrozza! Fino a quel giorno Francesco aveva viaggiato qualche volta in carrozza, appeso di dietro, dove si mettono i monelli di nascosto dal vetturino e al riparo dalla sua frusta.

Stavolta montò proprio sul sedile di pelle, sotto il mantice nero abbassato per riparare dal freddo. Il vetturino gli stese sulle gambe una bella coperta calda, montò a cassetta e fece schioccare la frusta.

Il cavallo si avviò al piccolo trotto.

— Peccato che i miei amici non mi possano vedere — si diceva Francesco. — Ma quando arrivo a casa, prima di scendere, voglio chiamare la mamma. Verrà alla finestra, e ci verranno anche i miei fratellini, e io mi mostrerò sulla carrozza. Chissà come spalancheranno gli occhi.

I suoi occhi intanto, si facevano pesanti. Lasciò che si chiudessero, e cullato dal dondolio dolce della carrozza, che scivolava senza scosse sulla neve, si addormentò.

Camminava con lui per la città come una brava nonna, un po' severa ma affettuosa.

Spìcciola vuol morire

Spìcciola si riscosse.

— È ora che mi muova — pensò — non è giusto che io mi lasci morire di freddo sulla porta di una casa disabitata. Ho sentito di cani che si sono lasciati morire sulla tomba del padrone, ma io non ho ancora un padrone, e questa non è una tomba. Proverò a sgranchirmi le gambe.

Tentò di dimenare la coda, ma ci riuscì con difficoltà, tanto era gelata. Si strofinò il naso nella neve, come aveva sentito dire che si fa per riscaldarne la punta, si scrollò il freddo di dosso e si incamminò.

Da che parte? Oh, non importa. Non sempre i cani sanno dove vanno, e si parla dei cani veri: figuratevi Spìcciola, che era un cane per gioco.

Spìcciola vagò qua e là per la città, schizzando via a tempo davanti ai tram che gli correvano addosso e specchiandosi ogni tanto in qualche pozzanghera.

E ogni volta, osservando la propria immagine, rifletteva: