— Carino, lui, gli piace il treno… Ma stammi a sentire: due giorni dopo la tua lettera è venuta qui tua madre.
— Sì, gliel'ho detto io di venire. L'ho tanto pregata: va' dalla Befana, le ho detto, è così buona, non ci dirà di no.
— Per tua norma e regola io non sono né buona né cattiva. Io faccio il mio lavoro, e non posso lavorare gratis. Tua madre non aveva soldi per pagare: voleva lasciarmi un vecchio orologio in cambio del treno, ma io non posso vedere gli orologi perché fanno passare il tempo troppo in fretta. Le ho anche ricordato che mi deve pagare ancora il cavalluccio dell'anno scorso e la trottola di due anni fa. Lo sapevi tu questo?
No, il bambino non lo sapeva. Le mamme non dicono mai i loro dispiaceri ai bambini.
— Ed ecco perché quest'anno non hai avuto nulla. Mi sono spiegata? Ti sembra che io abbia ragione?
— Sì, signora, lei ha ragione — mormorò Francesco — io pensavo invece che lei si fosse scordata del mio indirizzo.
— No, anzi me lo ricordo molto bene. Ce l'ho scritto qui vedi? E un giorno o l'altro manderò la mia segretaria a prendere i soldi per i giocattoli degli anni passati.
La vecchia serva che stava origliando, a sentirsi chiamare «la mia segretaria» fu per svenire, e dovette bere mezzo bicchiere d'acqua per ripigliar fiato.
— Quale onore, signora baronessa — disse poi alla sua padrona quando il bambino se ne fu andato.
— Prego, prego — borbottò ruvidamente la Befana. — Ma intanto metti sulla porta il cartello «chiuso fino a domani», così non verranno altri scocciatori.
— Devo abbassare anche la saracinesca?
— Sì, è meglio. Tanto, oggi non si possono concludere buoni affari.
Teresa corse ad eseguire gli ordini. Francesco era sempre là, col naso incollato alla vetrina, ad aspettare chissà che cosa. La saracinesca che scendeva per poco non lo colpì sul capo. Francesco appoggiò la fronte alla lamiera polverosa e singhiozzò.
Nella vetrina quel singhiozzo fece un effetto straordinario: una dopo l'altra, quasi senza accorgersene, le bambole cominciarono a singhiozzare e singhiozzarono tanto forte che il Capitano Mezzabarba sghignazzò:
— Scimmie! Ecco che hanno bell'e imparato a piangere. — Sputò oltre il parapetto del suo veliero e disse ancora:
— Scimmie.
Poi tacque. Ora i singhiozzi del bambino non si udivano più: si udiva invece il rumore dei suoi passi che si allontanavano, uno, due, uno. due, un rumore malinconico, sempre più lontano. Poi più nulla.
Allora il Capitano Mezzabarba sputò di nuovo dal parapetto e ghignò:
— Corpo di mille balene stupide! Piangere per un treno. Non darei il mio veliero per tutti i treni di tutte le ferrovie del mondo.
Il Grande Capo Penna d'Argento si tolse la pipa di bocca, come doveva fare ogni volta per poter parlare e disse:
— Capitano Mezzabarba non dire verità. Lui stare molto commosso per povero cucciolo bianco.
— Chi, io? Che cosa vuol dire commosso, per favore?
— Volere dire metà faccia piangere e altra metà avere vergogna.
Mezzabarba si guardò bene dal voltarsi, perché la sua mezza faccia sbarbata piangeva davvero. Ma lui gridò:
— Smettila, uccellaccio della prateria. Se vengo giù ti spiumo come il tacchino di Natale.
E continuò per un pezzo a vomitare ingiurie molto colorite, tanto che il Generale, sperando che stesse per scoppiare la guerra, diede l'ordine di caricare i cannoni. Ma Penna d'Argento si era già rimessa la pipa in bocca e non parlò più, anzi, si addormentò placidamente.
Dormiva sempre con la pipa in bocca.
Il Capostazione non ha idee
Il giorno dopo Francesco tornò e i suoi occhi tristi rimasero fissi per un pezzo sulla Freccia Azzurra. Tornò anche il giorno successivo, e tutti gli altri giorni. Qualche volta si fermava solo pochi minuti e poi scappava via senza voltarsi. Altre volte restava lunghe ore col naso schiacciato sulla vetrina e il ciuffo bruno che gli scendeva sulla fronte. Dava qualche occhiata affettuosa anche agli altri giocattoli, ma il suo cuore, si vedeva bene, batteva soltanto perii meraviglioso treno elettrico. Il Capostazione, il Capotreno e il Macchinista ne erano molto orgogliosi e si guardavano attorno dandosi delle arie, ma nessuno si offendeva.
Tutti gli abitanti della vetrina si erano affezionati a Francesco. Venivano anche altri bambini e ragazzi a incollare il naso sul vetro e a contare i giocattoli, ma gli abitanti della vetrina se ne accorgevano appena. Invece, se Francesco tardava più del solito a comparire, il Capostazione camminava nervosamente su e giù per i binari gettando occhiate ansiose all'orologio, Mezzabarba sputava continuamente dal parapetto, il pilota Seduto si sporgeva dall'apparecchio a rischio di cadere e Penna d'Argento si dimenticava di fumare, tanto che la pipa gli si spegneva.
Così tutti i giorni, così tutti i mesi, così tutto l'anno.
Alla Befana arrivavano ogni giorno mucchi di lettere che essa leggeva con attenzione, prendendo appunti e facendo calcoli, e quando le lettere furono tante che ci voleva mezza giornata solo ad aprire le buste, nella vetrina compresero che il 6 gennaio era vicino.
Povero Francesco! Ogni giorno il suo visino sottile era più triste. Bisognava fare qualcosa per lui. Tutti si aspettavano che il Capostazione della Freccia Azzurra suggerisse un'idea. Ma lui non sapeva fare altro che togliersi e rimettersi il berretto con cinque righe e guardarsi la punta delle scarpe, come se non l'avesse mai vista prima di allora.
Lasciate fare a Spìcciola
L'idea fu del cane di pezza.
Povero Spìcciola: non gli badava mai nessuno; primo, perché non si capiva di che razza fosse, secondo, perché non apriva mai bocca, nemmeno per sbadigliare. Era tanto timido. Se qualche pensiero gli attraversava la testa da un orecchio all'altro si guardava bene dal comunicarlo agli amici. Con chi parlare, del resto? Le bambole erano signore troppo eleganti per prendere in considerazione un cane che non era né maltese, né pechinese, né bassotto. I soldati di piombo gli avrebbero rivolto la parola, ma gli ufficiali certo non avrebbero dato il permesso. Insomma tutti avevano qualche ragione per non accorgersi del cane di pezza, e a forza di starsene zitto, sapete che cosa gli era successo? Che non sapeva più abbaiare.
Anche quella volta che aprì bocca per spiegare la sua famosa idea, gli uscì un suono così bizzarro, tra il miagolio del gatto e il raglio dell'asino, che l'intera vetrina scoppiò a ridere.
Solo Penna d'Argento non rise, perché i pellerossa non ridono mai. E quando gli altri ebbero finito di ridere lui si tolse la pipa di bocca e disse:
— Signori, ascoltare tutti quello che Spìcciola dire. Cane avere
parlato sempre poco e pensato molto. Chi pensare molto dire cosa saggia.
Spicciola arrossì fino alla punta della coda per il complimento, si schiarì la voce e cominciò a balbettare:
— Quel bambino… quel Francesco… credete che riceverà qualche dono dalla Befana quest'anno?
— Non credo — disse il Capostazione. — Sua madre non si è fatta più vedere e lettere non ne sono arrivate: io sono sempre stato attento alla posta.
— Anch'io — proseguì Spìcciola. — E penso proprio che a Francesco non toccherà nulla. Che ne direste se gli facessimo una sorpresa?
— Uh sì, una sorpresa — risero le bambole. — Che cos'è?
— Zitte, voi — tuonò Mezzabarba — le donne dovrebbero sempre star zitte.
— Ritirate subito l'offesa — esclamò il Colonnello dei bersaglieri sguainando la spada — o ve la ricaccerò in gola…
— … A cannonate! — concluse il Generale dell'artiglieria, schierando le sue batterie.
— Scusate, — gridò il Pilota Seduto — non fate tanto chiasso, perché di quassù non si capisce nulla. Lasciate parlare il cane.