Выбрать главу

«Ho visto le lastre del suo cranio. Il qui presente dottor Singh ne è sicurissimo.»

«E cosa avrebbe a che fare un Neandertal con la distruzione dell'Osservatorio di neutrini di Sudbury?» domandò un altro giornalista.

Reuben scrollò le spalle, riconoscendo la pertinenza della domanda. «Non lo sappiamo.»

«È uno scherzo» disse l'inviato del Sudbury Star. «Non può essere altrimenti.»

«Se è così, il dottor Singh e io siamo stati tratti in inganno.»

«Dottor Singh,» gridò un reporter «si tratta di… Questa persona qui è un uomo delle caverne?»

«Spiacente, ma posso discutere di un paziente solo con altri medici» rispose Singh.

Reuben lo guardò, smanioso. «Dottor Singh, la prego…»

«No» disse Singh. «È la regola…»

Reuben abbassò un attimo lo sguardo, pensieroso, poi si girò verso Ponter, supplichevole. «Adesso sta a te» gli disse.

Certamente l'uomo non comprese le parole, ma sembrò afferrare la situazione. Per la verità, Reuben pensò anche che Ponter avrebbe avuto buone possibilità di scappare, se avesse voluto. Non particolarmente alto, era però di gran lunga più robusto dei due poliziotti. Ma gli occhi di Ponter ruotarono subito verso Singh, e Reuben, che lo seguiva con lo sguardo, si accorse che stava guardando la busta di manila che Singh stringeva a sé.

Ponter si avvicinò a Singh a grandi passi. Reuben vide uno dei poliziotti mettere la mano sulla fondina; evidentemente pensava che stesse per assalire il dottore. Ma Ponter si fermò subito, proprio di fronte a Singh, tendendogli la mano robusta, i palmi in alto, con un gesto universale.

Singh sembrò esitare, poi cedette la busta. Nella stanza non c'erano pannelli luminosi, ed era quasi buio, ma da una grossa finestra filtrava la luce di un lampione. Ponter si avvicinò alla finestra; forse aveva capito che i poliziotti avrebbero cercato di fermarlo se si fosse diretto verso la porta a vetri dell'ingresso. Prese una lastra — la sezione laterale — e la poggiò sul vetro in modo che fosse visibile a tutti. Le telecamere ripresero la scena, e ci fu un nuovo balenare di flash. Ponter fece segno a Singh di avvicinarsi, e il Sikh obbedì, seguito da Reuben. Poi batté il dito sulla lastra, quindi indicò Singh con la mano. Ripeté la sequenza due o tre volte, aprì e chiuse la mano sinistra con le dita tese, invitando il dottore a 'parlare' con quel gesto inequivocabile.

Il dottor Singh si schiarì la gola, si guardò intorno a esaminare i volti che affollavano la sala, scrollò appena le spalle e attaccò: «Ehm, sembra che il paziente mi abbia autorizzato a parlare delle sue lastre.» Tirò fuori dal taschino del camice una penna e la usò come bacchetta. «Vedete tutti questa protrusione nella parte posteriore del cranio? I paleantropologi la chiamano chignon occipitale…»

8

Mary Vaughan guidò lentamente fino al suo appartamento a Richmond Hill, a dieci chilometri dall'università. Abitava nella Observatory Lane, nei pressi dell'Osservatorio David Dunlap, che un tempo — per un breve periodo e parecchi anni prima — aveva ospitato il più grande telescopio ottico del mondo, oramai ridotto a poco più di un centro studi a causa del continuo sviluppo di Toronto, le cui luci ne pregiudicavano il funzionamento.

Aveva scelto di vivere lì anche per la sicurezza che quel posto offriva. Mentre risaliva il vialetto, dalla guardiola il custode la salutò con la mano, ma la donna evitò il suo sguardo. Continuò a guidare costeggiando i prati ben curati e i grossi pini, fino al garage sotterraneo. Il suo posto auto era piuttosto lontano dagli ascensori; prima di allora non aveva mai avuto paura a percorrere quel tragitto, a qualsiasi ora. Quella sera, invece, tremava a ogni passo, pregando di non incontrare nessuno in quella notte diabolica.

Il modo di camminare tradiva forse qualcosa? Aveva il passo troppo affrettato? La testa esageratamente incurvata? E dal modo in cui serrava la giacca, non sembrava che i bottoni non riuscissero a chiuderla completamente e a proteggerla?

Entrò nel corridoio che conduceva all'ascensore, oltrepassando due porte, e prenotò la salita, aspettando l'arrivo di una delle tre cabine. Di solito ingannava l'attesa leggendo gli avvisi affissi nella bacheca dall'amministratore e dagli altri inquilini. Ma quella notte teneva gli occhi bassi, sulle lise mattonelle punteggiate del pavimento. L'ascensore non aveva l'indicatore luminoso dei piani ma solo il pulsante della prenotazione, che si sarebbe spento alcuni secondi prima dell'apertura delle porte. Dio, non vedeva l'ora di arrivare a casa. Lanciò un'occhiata di straforo al pulsante, ma non riuscì a mantenere lo sguardo sulla freccia illuminata puntata verso l'alto…

Finalmente, la porta dell'ascensore più lontano da dove si trovava si aprì. Entrò e spinse il pulsante del quattordicesimo piano. In realtà abitava al tredicesimo, ma avevano saltato quel numero perché portava male. In alto, sulla pulsantiera, c'era una targhetta di vetro con dei caratteri stampati a laser: 'Il Consiglio di Amministrazione vi augura una buona giornata.'

L'ascensore cominciò a salire. Giunto al piano si fermò, e le porte si aprirono con un sussulto. Attraversò il corridoio, appena ritappezzato per decisione del Consiglio di Amministrazione in un orribile rosso scuro, fino alla porta del suo appartamento. Affondò la mano nella borsa, trovò le chiavi, le tirò fuori e…

… e rimase a fissarle, con gli occhi pieni di lacrime, la vista annebbiata e il cuore di nuovo in tumulto.

Il piccolo portachiavi aveva un fischietto di plastica giallo, un regalo fattole dalla praticissima suocera una dozzina di anni prima. Non si era mai presentata l'occasione di usarlo, finché… non era stato troppo tardi. Oh, avrebbe potuto farlo dopo la violenza subita, ma…

… ma lo stupro era un reato di violenza, e lei era sopravvissuta. Le aveva piazzato un coltello alla gola, la punta premuta contro la carne, eppure non l'aveva ferita né sfigurata. Se avesse dato l'allarme, forse l'uomo sarebbe tornato e l'avrebbe uccisa.

Dal corridoio si udì un suono lieve: un altro ascensore era giunto al piano, e tra pochi secondi sarebbe comparso un vicino. Armeggiò con la chiave nella serratura, il fischietto che pendeva, la aprì e si precipitò dentro.

Accese le luci e chiuse la porta. Si tolse le scarpe, attraversò il soggiorno dalle pareti color pesca, notando senza curarsene che la lucetta rossa della segreteria telefonica le faceva l'occhiolino. Entrò nella stanza da letto e si spogliò, pensando che quei vestiti non li avrebbe indossati mai più, li avrebbe gettati via perché per quante volte li avesse lavati non sarebbero mai più tornati puliti. Andò nel bagno, senza accendere la luce, sfruttando quella della lampada Tiffany posta sul comodino. Si infilò nella doccia, e nella semioscurità cominciò a strofinarsi, a sfregarsi, a scrostarsi fino a spellarsi. Poi si asciugò, tirò fuori un pigiama di flanella pesante che la vestiva completamente, che usava per gli inverni più rigidi, lo indossò e camminando carponi sul letto si infilò sotto le lenzuola. Si abbracciò, cominciò a tremare e a piangere, finché, dopo ore di inutili tentativi, cadde in un sonno intermittente, costellato da incubi in cui era inseguita, percossa e sfregiata da coltelli.

Reuben Montego non aveva mai incontrato il grande capo, il presidente della Inco. Quando gli dissero che voleva parlargli fu non poco sorpreso, e la cosa lo mise in trepidazione.

Reuben era orgoglioso del suo principale. Come molte società canadesi, la Inco era nata come un'azienda affiliata a una compagnia americana; nel 1916 era divenuta il braccio canadese della Compagnia Internazionale del Nichel, che operava nel campo minerario e che aveva sede nel New Jersey, finché dodici anni dopo, nel 1928, con una sottoscrizione di azioni era divenuta la società capogruppo.