«Qui?» disse l'autista con voce incredula.
«Abbiamo un laboratorio giù in una delle miniere.»
«Ah, sì, l'ho sentito dire. Computer fantasiosi, eh?»
Un'anatra sorvolò il tetto, il bianco corpo disadorno che spiccava contro il collo e la testa neri. «Già.»
«E come vanno le cose?»
Adikor si rese conto di come l'essere accusati di un delitto cambi la prospettiva delle cose. In casi del genere, avrebbe semplicemente risposto 'Bene', invece di impegolarsi con uno sconosciuto in quella dolorosa vicenda. Ma esisteva la possibilità che anche quell'autista fosse chiamato a testimoniare al processo. «Sì, signor giudice, ho accompagnato lo scienziato Huld, e quando gli ho chiesto come andavano le cose al suo laboratorio, mi ha risposto 'Bene.' Ponter Boddit era morto, ma lui non mostrava alcun dolore.»
Respirò a fondo e cominciò a parlare, cercando di misurare attentamente le parole. «Ieri c'è stato un incidente. Un mio collega è rimasto ucciso.»
«Oh, mi dispiace.»
Stavano sorvolando una landa sterile ricoperta di antiche rocce di granito e bassa sterpaglia. «Anche a me.»
Seguì un lungo silenzio. Non c'era modo di provare la sua colpevolezza. Niente cadavere, nessuna prova materiale che Ponter fosse morto, e tanto meno che fosse rimasto vittima di un delitto: il giudice non avrebbe potuto emettere una sentenza del genere.
Ma se…
Se, a dispetto di tutto, fosse stato condannato per omicidio, allora…
Allora cosa? Lo avrebbero sicuramente privato dei suoi beni, che avrebbero assegnato alla compagna di Ponter e ai suoi ragazzi, ma… ma no, no. Klast era morta venti mesi prima.
E oltre a confiscargli i beni, cos'altro potevano fargli?
Certo non… non quello.
Insomma, quali erano le pene da scontare se si veniva condannati per omicidio? Una cosa apparentemente inumana, ma evidentemente necessaria, dato che era stata decisa sin dai tempi della prima generazione.
Ad ogni modo, non doveva preoccuparsi troppo. Anche Daklar Bolbay doveva essere affranta per la morte di Ponter, con cui aveva condiviso la stessa compagna; entrambi infatti si erano legati a Klast, la cui morte doveva averla scossa quanto Ponter. E adesso, quella donna aveva perso anche lui! Si figurava il suo stato mentale, probabilmente messo a dura prova dalla doppia perdita. Senza dubbio, dopo un giorno o due, Bolbay sarebbe tornata in sé e avrebbe ritirato l'accusa, scusandosi per quello che aveva fatto.
E lui avrebbe garbatamente accettato le scuse; del resto, cos'altro poteva fare?
E se invece non l'avesse fatto? Se quell'assurda faccenda fosse arrivata sino in tribunale? Cosa sarebbe successo? Perché mai avrebbe dovuto…
L'autista interruppe le sue riflessioni: «Siamo quasi arrivati al Centro. Dove devo fermarmi?»
«North Side, Milbon Square.»
Vide l'autista annuire.
In effetti si stavano avvicinando al Centro. Gli spazi aperti avevano lasciato il posto a distese di pioppi e di betulle, a gruppi di case in legno e laterizio grigio. Era quasi mezzogiorno, e la nuvolaglia del mattino si era dispersa.
Mentre procedevano verso il Centro, Adikor scorse una donna, poi un'altra, quindi parecchie altre: le più splendide creature del mondo.
Una di loro notò il cubo e indicò Adikor. Non era raro che un uomo arrivasse nel Centro in un periodo che non fosse quello durante il quale Due diventano Uno, ma durante gli Ultimi Cinque, gli ultimi giorni del mese, non accadeva quasi mai.
Cercò di ignorare gli sguardi meravigliati delle donne.
No, non potevano riconoscerlo colpevole. Non c'era nessun cadavere!
Eppure, se l'avessero fatto…
L'apparecchio toccò il suolo, e Adikor si contorse sul sedile. Sentiva le contrazioni dello scroto, come se tutto il contenuto volesse risalire su nel torace, al riparo.
12
Reuben Montego era felice che Mary Vaughan avesse accettato l'invito. In fondo, sperava che la genetista provasse che Ponter non era un Neandertal, ma un semplice, vecchio, comunissimo esemplare umano, in modo che quella faccenda dimostrasse di avere un senso. Dopo una notte agitata, si era reso conto che era più semplice mandar giù l'idea che qualche fanatico si fosse fatto delle plastiche facciali per sembrare un Neandertal piuttosto che avere scoperto un esemplare autentico di quella specie estinta. Dopo tutto, Ponter poteva davvero essere l'adepto di qualche setta stramba. Se sin da piccolo, durante la crescita, avesse indossato dei caschi, scolpiti con la forma del cranio della specie dei Neandertal, la sua testa ne avrebbe assunto la forma, e in seguito poteva aver fatto un intervento alla mandibola…
Sì, poteva essere, pensò Reuben.
La professoressa Vaughan non sarebbe arrivata prima di un paio d'ore: aveva tempo di fare un salto in ospedale a dare un'occhiata al misterioso degente.
La prima cosa che notò entrando nella stanza furono i cerchi scuri attorno agli occhi di Ponter. Lui non aveva quel problema; quando viveva a Kingston (in Jamaica, non nella Kingston dell'Ontario, dove pure aveva abitato per un po') i genitori non avevano mai scoperto che spesso trascorreva buona parte della notte a leggere fumetti.
Era probabile che il dottor Singh gli avesse somministrato un sedativo. Anche nell'ipotesi che fosse un Neandertal, quasi certamente i medicinali impiegati per gli umani avrebbero avuto effetto. Lui, comunque, in un caso del genere avrebbe agito con prudenza.
Ad ogni modo, trovò Ponter seduto sul bordo del letto, che consumava la colazione appena portatagli da un'infermiera. Aveva guardato per un po' il vassoio, come se mancasse qualcosa. Poi aveva avvolto la mano destra nel tovagliolo di lino bianco e aveva preso le fette di bacon, una alla volta, e il cucchiaio invece della forchetta per le uova strapazzate.
Annusò il toast e lo rimise nel piatto, disdegnando anche il contenuto di una scatoletta di Corn Flakes della Kellogg's, anche se sembrò divertirsi a scoprire come aprirla in modo da trasformarla in una scodella. Dopo un cauto assaggio, svuotò in un sol sorso la bottiglietta di plastica di succo d'arancia, ma non degnò della minima attenzione né il caffè né il cartone da un quarto di latte parzialmente scremato.
Reuben andò nel bagno per prendere dell'acqua… ma si fermò di botto. Ponter non era di quel mondo. No, non poteva esserlo. Oh, è piuttosto normale dimenticarsi di tirare l'acqua, ma…
Non solo non aveva tirato l'acqua: per pulirsi, invece della carta igienica aveva usato l'asciugamano. Nessuno nel mondo civilizzato avrebbe fatto quell'errore. Eppure doveva appartenere a una cultura tecnologicamente evoluta, a giudicare da quell'impianto affascinante inserito nel polso sinistro.
Be', il modo migliore per scoprire qualcosa era provare a comunicare con lui. Indubbiamente non parlava — o non voleva parlare — inglese, ma, come diceva sua nonna, volere è potere.
«Ponter» lo chiamò adoperando l'unica parola che aveva appreso la sera precedente.
Passò un lungo momento prima che l'uomo alzasse la testa; troppo lungo, temette il dottore. Poi fece un cenno, come se non l'avesse riconosciuto, ma alla fine rispose: «Reuben.»
Questi sorrise. «Giusto, mi chiamo Reuben.» E sempre parlando lentamente, aggiunse: «E tu ti chiami Ponter.»
«Ponter, ka» rispose l'uomo.
Reuben indicò l'impianto nel polso sinistro, chiedendogli: «Cos'è questo?»
Ponter alzò il braccio e rispose: «Pasalab.» Poi ripeté lentamente, scandendo le sillabe. Sembrava aver compreso che si trattava di una lezione di lingua: «Pas-a-lab.»
Ma Reuben si accorse di aver fatto un errore; nella sua lingua non esisteva alcun termine corrispettivo; 'impianto' o 'innesto' erano parole troppo generiche. Decise quindi di cambiare argomento. Alzò un dito e disse: «Uno.»