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«Kolb» disse Ponter.

«Due» continuò Reuben facendo il segno della pace.

«Dak» disse Ponter.

«Tre.»

«Narb.»

Le quattro dita: «Quattro.»

«Dost.»

Con la mano aperta: «Cinque.»

«Alm.»

Continuò a contare fino a dieci, aggiungendo un dito dell'altra mano a ogni numero. Poi provò dei numeri a caso, per verificare che Ponter ripetesse la stessa parola per il numero corrispettivo. Da quanto riuscì a stabilire — non era semplice ricordare quelle parole sconosciute — il Neandertal non sbagliò mai: sembrava che si trattasse di un vero e proprio linguaggio.

Quindi cominciò a indicare parti del corpo; si puntò un indice sul volto rasato e disse: «Testa.»

Ponter fece lo stesso con la sua, rispondendo: «Kadun.»

Quindi mise l'indice sull'occhio sinistro: «Occhio.»

A quel punto Ponter fece una cosa sorprendente. Alzò la mano destra, il palmo in fuori come a chiedere di aspettare un attimo, e cominciò a parlare velocemente nella sua lingua, la testa lievemente abbassata e inclinata, come se stesse conversando con qualcuno per mezzo di un telefono invisibile.

«È uno spettacolo patetico» disse Hak attraverso l'impianto cocleare.

«Pensi?» fu la risposta di Ponter. «Non siamo mica tutti come te, sai? Stiamo semplicemente scambiandoci delle informazioni.»

«Tanto peggio» commentò Hak. «Se avessi fatto attenzione a quello che ti hanno detto, o mentre parlavano tra di loro, avresti appreso molto più del loro linguaggio che non una semplice lista di nomi. Sulla base del contesto in cui sono state usate, ho catalogato centosedici parole della loro lingua del cui significato sono sicuro, e altre duecentoquaranta con una certa attendibilità.»

«Senti,» fece Ponter piuttosto seccato «se pensi di potertela cavare meglio di me…»

«Con tutto il rispetto, nell'apprendimento di una lingua uno scimpanzé farebbe meglio di te.»

«Bene!» esclamò Ponter, chinandosi e sull'impianto cocleare e attivando l'altoparlante. «Fa pure!»

«Con piacere» disse Hak prima di rivolgersi a Reuben.

«Salve» disse una voce femminile. Il cuore di Reuben sobbalzò. «Ehi, lassù.»

Reuben guardò in basso. La voce proveniva dallo strano aggeggio incastrato nel polso sinistro di Ponter. «Parla rivolto alla mano» disse la voce.

«Uhm. Salve» rispose.

«Salve Reuben» disse la voce femminile. «Mi chiamo Hak.»

«Hak» ripeté il medico scuotendo impercettibilmente la testa. «Dove sei?»

«Sono qui.»

«No, voglio dire, dove ti trovi? Ho capito che quell'aggeggio è una specie di cellulare… a proposito, qui in ospedale non si possono usare, potrebbero interferire con le apparecchiature elettroniche. Potremmo richiamarti noi…»

Bip!

Reuben si fermò. Il rumore proveniva dall'impianto.

«Lezione di lingua» disse Hak. «Ascoltare.»

«Lezione? Ma…»

«Ascoltare» ripeté Hak.

«Uhm, sì, va bene.»

A quel punto Ponter annuì, come rispondendo a una domanda che Reuben non aveva sentito. Quindi indicò la porta della stanza.

«Quella?» chiese Reuben. «Oh, quella è una porta.»

«Troppe parole» disse Hak.

Reuben annuì. «Porta» disse. «Porta.»

Ponter si alzò dal letto e si diresse verso la porta. Posò la grossa mano sulla maniglia e aprì la porta.

«Uhm» fece Reuben pensieroso, prima di capire: «Oh, aprire. Aprire.»

Ponter richiuse la porta.

«Chiudere.»

Ponter aprì e chiuse la porta ripetutamente.

Reuben aggrottò la fronte, poi comprese: «Aprire. Stai aprendo la porta. O la stai chiudendo. Apertura. Chiusura. Apertura. Chiusura.»

Ponter si avvicinò alla finestra, che indicò con un ampio movimento delle mani.

«Finestra» disse Reuben.

Tamburellò con le dita sul vetro.

«Vetro» gli insegnò Reuben.

E quando Ponter tirò su la finestra, la voce femminile disse: «Sto aprendo la finestra.»

«Sì!» esclamò Reuben. «Aprire la finestra! Sì.»

Ponter richiuse la finestra. «Sto chiudendo la finestra» disse la voce femminile.

«Sì» ripeté Reuben. «Sì, è così.»

13

Adikor Huld aveva dimenticato cosa si provava durante gli Ultimi Cinque. Ne sentiva l'odore nell'aria, l'odore di tutte le donne. Mancava poco al loro ciclo, il cui inizio, che avrebbe coinciso con la luna nuova, segnava la fine degli Ultimi Cinque e del mese in corso, e l'inizio del successivo. E a giudicare dai feromoni presenti nell'aria, quel momento sarebbe presto giunto.

Naturalmente non tutte avrebbero avuto le mestruazioni. Per esempio non le prepubere — membri della generazione 148 -, né la maggior parte della generazione 144, in menopausa, e quasi tutte quelle delle generazioni precedenti, e nemmeno quelle incinte o in allattamento. Presto sarebbe arrivato il momento della generazione 149, mentre la 148 era già da tempo svezzata. Eppoi c'erano anche le sterili, ma tutte le altre donne che vivevano al Centro, fiutando a vicenda i feromoni che producevano, avevano il ciclo mestruale sincronizzato.

Adikor sapeva bene che quei cambiamenti ormonali rendevano le donne piuttosto irascibili, e che quella era la ragione per cui i loro antenati, molto prima di quando avevano cominciato a numerare le generazioni, si trasferivano sulle colline durante quel periodo.

L'autista l'aveva lasciato all'indirizzo richiesto, un edificio rettangolare costruito parzialmente in arboricoltura, con malta, mattoni e con i pannelli solari sul tetto. Respirò a fondo con la bocca, per calmarsi, evitando di fiutare l'aria. Espirò lentamente, quindi si avviò lungo il piccolo sentiero che attraversava rocce, fiori, erba e arbusti sistemati sul fronte della casa. La porta d'ingresso era socchiusa. «Salve! C'è qualcuno in casa?» chiamò a voce alta.

Jasmel Ket comparve sulla porta. Era alta, snella, già oltre la duecentocinquantesima luna, quella della maggiore età. Il viso era quello di Ponter. E di Klast; per sua fortuna aveva ereditato gli occhi del padre e le guance della madre, e non il contrario.

«C-c-cosa…» balbettò la ragazza. Poi, con grande sforzo, riuscì a dire: «Cosa ci fai qui?»

«Buongiorno, Jasmel» la salutò Adikor. «È tanto che non ci vediamo.»

«Devi essere in un mare di guai per venire fin qui, e per di più durante gli Ultimi Cinque!»

«Non ho ucciso tuo padre. Mi devi credere.»

«È scomparso, no? Se è vivo, dove si trova?»

«Ma se è morto, dov'è il suo cadavere?»

«Non lo so. Daklar dice che lo hai fatto sparire.»

«È in casa?»

«No, è uscita.»

«Posso entrare?»

Jasmel lanciò uno sguardo fugace al suo Companion, come per sincerarsi che funzionasse. «Credo… credo di sì» disse infine.

«Grazie.» La ragazza si fece da parte per permettergli di entrare. Dentro era piacevolmente fresco, un vero sollievo dal caldo estivo. Un robot era alle prese con dei lavori domestici; sollevava dei soprammobili con le sue braccette da insetto e ne aspirava la polvere.

«Dov'è tua sorella?» chiese Adikor.

«Megameg» rispose Jasmel con enfasi, facendogli pesare di aver dimenticato il nome. «È andata a giocare a barstalk con i suoi amici.»

Forse era il caso di dimostrarle che sapeva tutto di Megameg. In effetti, Ponter parlava spesso delle sue figlie. In altre circostanze avrebbe lasciato perdere, ma adesso la situazione era tale che doveva farlo. «Megameg» ripeté Adikor. «Sì, Megameg Bek. Una 148, giusto? Un po' piccolina per la sua età, ma piena di energie. Da grande vuole diventare un chirurgo, vero?»