«Professoressa Vaughan» disse porgendole la mano. «Sono Reuben Montego, il medico del distretto minerario di Creighton. La ringrazio di cuore per essere venuta.» Poi presentò la ragazza che era con lui: «La signorina è Gillian Ricci, addetta stampa della Inco; si occuperà di lei.»
A Reuben parve che fosse sin troppo contenta della giovane e attraente accompagnatrice; forse era lesbica, pensò. Si offrì di portarle la valigia: «Dia pure a me.»
Mary gli cedette il bagaglio, e per tutto il tragitto, mentre attraversavano la piazzola sotto il cocente sole estivo, rimase alle calcagna della ragazza. Reuben e Gillian portavano occhiali da sole; lei, che evidentemente non aveva pensato a prenderne un paio, socchiudeva gli occhi per ripararsi dalla luce intensa.
Quando giunsero alla macchina di Reuben, una Ford Explorer color vinaccia, Gillian fece per accomodarsi sul sedile posteriore, ma Mary la fermò con voce sin troppo alta: «No, vado io dietro. Ho bisogno… ho bisogno di stendermi un po'.»
Quelle strane parole aleggiarono per qualche secondo, poi Reuben vide Gillian scrollare impercettibilmente le spalle e prendere posto sul sedile anteriore.
Andarono direttamente all'ospedale St. Joseph, in Paris Street, situato appena dopo l'edificio a forma di fiocco di neve del museo Science North. Durante il tragitto Reuben la informò brevemente dell'incidente verificatosi all'osservatorio e dello strano essere che vi avevano trovato.
Entrando nel parcheggio dell'ospedale, Reuben notò tre furgoncini delle stazioni televisive locali. Di certo gli addetti alla sicurezza dell'ospedale stavano tenendo i reporter lontani da Ponter, anche se, c'era da scommetterci, i giornali avrebbero seguito la vicenda molto da vicino.
Entrarono nella stanza 3-G, dove Ponter era in piedi davanti alla finestra, le grosse spalle alla porta. Stava salutando qualcuno con la mano: lì fuori dovevano esserci delle telecamere. Una celebrità che veniva incontro alle loro esigenze, pensò Reuben. I media avrebbero amato quel tipo.
Reuben si schiarì la voce educatamente, e Ponter si girò. La luce della finestra rendeva sfuggente la sua figura, ma, appena fece qualche passo avanti, il dottore si illuminò nel vedere Mary spalancare la bocca. Lo aveva appena intravisto alla televisione, disse, ma dal vivo era tutta un'altra cosa.
A un certo punto si lasciò sfuggire: «Beccati questo, Carleton Coon.»
«Come?» chiese Reuben meravigliato.
Mary dava l'impressione di essere agitata e confusa. «Santo cielo! Mi scusi, stavo pensando a Carleton Coon, l'antropologo americano che sosteneva che un uomo di Neandertal vestito con un abito di Brooks Brothers passerebbe facilmente per un essere umano.»
Reuben annuì, tranquillizzato dalla spiegazione: «Ah.» Poi aggiunse: «Professoressa Mary Vaughan, ho il piacere di presentarle Ponter.»
«Salve» disse la voce femminile dall'impianto di Ponter.
Reuben la vide sgranare gli occhi. «Sì» le confermò annuendo. «La voce viene proprio da quella cosa lì nel polso.»
«Che roba è?» chiese la donna. «Un orologio parlante?»
«Molto di più.»
Mary si chinò per osservare più da vicino. «Non conosco quei numeri, se di numeri si tratta» disse. «Non le pare che mutino troppo velocemente per essere dei secondi?»
«Lei ha uno sguardo acuto» la lusingò Reuben. «Infatti ha ragione. Sul display compaiono dieci numeri diversi, anche se non ne ho mai visti di simili. Ne ho anche calcolato la frequenza: cambiano ogni 0,86 secondi, vale a dire esattamente un centomillesimo di un giorno. In altre parole, si tratta di un contatore decimale del tempo terrestre. Inoltre, come può vedere, si tratta di un apparecchio estremamente sofisticato. Non è un semplice visualizzatore a cristalli liquidi; non so cosa diavolo sia. ma ho notato che la scritta sul display è leggibile da qualsiasi angolazione si guardi, con qualunque condizione di luce.»
«Mi chiamo Hak» disse l'impianto installato nel singolare polso sinistro dell'uomo. «Sono il Companion di Ponter.»
«Ah» rispose Mary raddrizzandosi. «Ehm, lieto di conoscerla.»
A quel punto Ponter emise una serie di incomprensibili suoni gutturali. Hak tradusse: «Anche Ponter è lieto di conoscerla.»
«Abbiamo passato un giorno a fare lezioni di lingua» disse Reuben rivolto a Mary. «Come può vedere, abbiamo fatto dei progressi.»
«Così pare» disse Mary sbalordita.
«Hak, Ponter, questa è Gillian» disse Reuben.
«Salve» salutò Hak, e Ponter annuì come approvando.
«Salve» rispose Gillian, facendo un evidente sforzo per controllarsi.
«Hak è… be', immagino che computer sia il termine giusto. Un computer portatile parlante» disse Reuben sorridendo, prima di aggiungere: «Altro che il mio palmare.»
«Ma c'è qualcuno che controlla quell'affare?» chiese Gillian.
«Per quanto ne so io, no» rispose il medico. «Ma lei — Hak — sembra avere una memoria perfetta. Basta dirle una sola volta una parola ed è in grado di ricordarla.»
«E quest'uomo, questo Ponter, davvero non parla inglese?» domandò Mary.
«No» rispose Reuben.
«Incredibile» fu il suo commento. «Incredibile.»
L'impianto emise un bip.
«Incredibile» ripeté Reuben rivolgendosi a Ponter «significa inverosimile.» Un altro bip. «Non vero.» Tornò a guardare Mary. «Ha acquisito i concetti di vero e falso impiegando alcune semplici nozioni matematiche, ma come vede dobbiamo ancora lavorarci su. Tanto per dirne una, anche se con la perfetta memoria che si ritrova è più semplice per Hak apprendere l'inglese che per noi imparare la sua lingua, né lei né Ponter riescono a riprodurre il suono della i lunga, e…»
«Davvero?» si stupì Mary con inusitata serietà. Il dottore annuì.
«Ti chiami Mare» disse Hak, dimostrando quanto aveva detto Reuben. «Lei si chiama Gill'an.»
«Ma è… è sbalorditivo.»
«Trova?» disse Reuben. «Perché?»
Mary trasse un profondo respiro. «In tutti questi anni si è molto dibattuto se i Neandertal avessero sviluppato l'uso del linguaggio articolato, e in tal caso, quale gamma di suoni usavano.»
«Ebbene?» la incoraggiò Reuben.
«Alcuni linguisti ritengono che non fossero in grado di pronunciare il fonema della i lunga, a causa della forma della bocca, molto più lunga della nostra.»
«Quindi abbiamo di fronte un Neandertal!» concluse Reuben.
Mary respirò di nuovo a fondo, espirando l'aria lentamente. «Be', sono qui per scoprirlo, no?» Poggiò a terra la piccola borsa che aveva con sé e la apri. Tirò fuori un paio di guanti di lattex e li infilò, quindi prese un vasetto di plastica e ne estrasse un tampone.
Quando fu pronta, disse: «Per favore, gli dica di aprire la bocca.»
Reuben annuì. «Questo non è un problema.» Si girò verso Ponter e gli ordinò: «Ponter, apri la bocca.»
Passò qualche secondo. Reuben aveva ormai capito che Hak traduceva per Ponter quello che gli veniva detto senza che nessuno ne sentisse la voce. Il Neandertal inarcò il lungo sopracciglio che gli attraversava la fronte — fu una visione stupefacente -, evidentemente sorpreso dalla richiesta, ma fece quello che gli era stato chiesto.
Reuben rimase senza parole. Al liceo aveva un amico che riusciva a infilare tutto il pugno della mano nella bocca; ma quella di Ponter era così profonda e capiente che avrebbe potuto infilarci non solo il pugno ma anche un terzo dell'avambraccio.