«Ci avete sterminati?» chiese a quel punto il Neandertal.
«Su questo punto non tutti concordano» rispose Mary.
«Tu cosa credi che sia accaduto?» insisté Ponter, gli occhi dorati fissi su di lei.
Mary respirò a fondo prima di rispondere. «Io… sì, credo che sia andata così.»
«Ci avete sterminati» ripeté Ponter con la sua voce, che Hak tradusse con una certa difficoltà.
Mary annuì. «Mi dispiace. Davvero. Tutto ciò è avvenuto tanto tempo fa. Allora eravamo dei selvaggi, e…»
In quel momento squillò il telefono. Reuben, visibilmente sollevato dall'interruzione, saltò dalla sedia e si precipitò a rispondere. «Pronto?»
Mary guardò Reuben che aveva alzato il tono della voce. «Grandioso!» stava dicendo il medico. «Meraviglioso! Sì, no… sì, sì, va bene. Grazie! Certo. Arrivederci.»
«Allora?» gli chiese Louise.
Reuben faticava palesemente a trattenere un sorriso. «Ponter ha l'adenite equina» rispose riagganciando.
«Adenite equina?» ripeté Mary. «Ma gli esseri umani non ne sono soggetti.»
«Giusto» confermò Reuben. «Ne siamo naturalmente immuni. Ma non Ponter, perché la sua specie non è vissuta per generazioni insieme agli animali domestici. Si è beccato questa malattia, che i veterinari chiamano anche stranguglione, a cui vanno soggetti i cavalli giovani. A causarla è un batterio, lo streptococcus equii. Si cura con la penicillina, che per fortuna gli ho già somministrato. Dovrebbe andare tutto bene.»
«Quindi noi non dobbiamo preoccuparci?» chiese Louise.
«Già. E questa non è l'unica buona notizia» disse Reuben con un sorriso a trentadue denti. «Hanno deciso di porre fine alla quarantena! Se le ultime analisi saranno negative, domani mattina saremo liberi!»
Louise batté le mani, Mary era felice come una bambina. Guardò Ponter, che era rimasto con il capo reclinato, probabilmente ancora alle prese con il pensiero dell'estinzione della sua specie su questo pianeta.
Gli mise una mano sul braccio e lo chiamò dolcemente: «Ehi, Ponter, non è una notizia fantastica? Domani potremo uscire, ti mostrerò il nostro mondo!»
Ponter alzò lentamente il capo e guardò Mary, che stava scrutando l'espressione del suo viso. La bocca semiaperta, gli occhi spalancati, esprimevano le parole che pronunciò subito dopo: «Devo proprio?»
E annuì rassegnato.
39
Ponter trascorse quasi tutta la sera da solo, a guardare tristemente fuori dalla finestra che dava sul giardino.
Mary e Louise sedevano nel soggiorno. La genetista aveva dimenticato a Toronto l'ultimo romanzo di Scott Turow, che aveva lasciato a metà, e quindi dovette accontentarsi dell'ultimo numero di Time. Sulla copertina c'era una foto del presidente Bush; probabilmente, pensò, nel numero seguente sarebbe apparso Ponter. Preferiva l'Economist, una rivista che Reuben non leggeva, in particolare le recensioni cinematografiche di Richard Corliss, anche se in quel periodo non aveva nessuno che l'accompagnasse al cinema.
Seduta sulla poltrona accanto, Louise scriveva una lettera, in francese notò Mary, su un bloc-notes giallo. Indossava pantaloncini corti e una maglietta degli INXS, le lunghe gambe piegate sotto il corpo.
Reuben entrò nella stanza, si inginocchiò tra le due donne, e a bassa voce disse: «Sono preoccupato per il nostro piccolo Ponter.» Louise lasciò andare il bloc-notes, Mary la rivista che stava leggendo. «Anch'io» disse la genetista. «Credo che non abbia preso molto bene la notizia dell'estinzione della sua specie.»
«No, infatti» convenne Reuben. «Senza considerare il fatto che ha passato un periodo alquanto stressante, e che domani andrà anche peggio. I giornalisti lo assaliranno, per non parlare dei funzionali inviati del governo, dei fanatici religiosi, e chi più ne ha più ne metta.»
Louise annuì. «Credo proprio che tu abbia ragione.»
«Che possiamo fare?» chiese Mary.
Reuben aggrottò la fronte, come per trovare le parole giuste, quindi disse: «Qui a Sudbury non c'è molta gente col mio stesso colore di pelle. Pare che a Toronto le cose vadano un po' meglio, ma anche lì capita che la polizia perseguiti la gente di colore. 'Cosa fai qui? È tua questa macchina? Mostrami un documento.'» Scosse la testa. «Quando ti succede, ne ricavi qualche insegnamento, per esempio capisci che anche tu hai dei diritti. Ponter non è un criminale, e non rappresenta una minaccia per nessuno. Non si trova alla frontiera, quindi nessuna autorità può impedirgli di andare dove gli pare. Il governo e la polizia potrebbero volerlo tenere sotto controllo, ma questo non cambia le cose: anche Ponter ha i suoi diritti.»
«D'accordissimo con te» disse Mary.
«Siete mai state in Giappone?» chiese Reuben.
Entrambe scossero la testa.
«È un paese meraviglioso, ma ci vivono solo giapponesi. Puoi trascorrere giorni interi senza vedere un bianco, figuriamoci un nero. In una settimana ho incontrato solo due neri. E mi ricordo quel giorno che passeggiavo al centro di Tokio: avrò incrociato diecimila persone, tutti giapponesi. Improvvisamente ho visto un bianco che mi veniva incontro, sorridendo. Sapeva bene che non ero della sua razza, ma mi ha riconosciuto come un occidentale, e mi ha sorriso, come per dire 'sono così felice di incontrare un fratello'… un fratello! E mi sono accorto che rispondevo al sorriso, e che stavo pensando la stessa cosa. Non l'ho mai dimenticato.» Guardò le due donne, quindi prosegui: «Insomma, il buon Ponter può girare tutto il mondo senza mai vedere una sola faccia che gli ricordi la sua gente. Io e quel bianco, e anche tutti quei giapponesi, abbiamo molto più in comune di lui rispetto ai sei miliardi di persone che vivono sulla Terra.»
Mary sbirciò Ponter in cucina, sempre intento a guardare fuori dalla finestra, il viso poggiato sul palmo della mano. «Cosa possiamo fare?»
«Da quando è qui è sempre vissuto come un prigioniero» disse Reuben. «Prima in ospedale, poi qui dentro, in quarantena. Sono convinto che abbia bisogno di tempo per recuperare il suo equilibrio. La mia amica Gillian Ricci mi ha avvertito con una e-mail quello che avevo previsto è stato puntualmente preso in considerazione da quelle facce di bronzo — dovrei dire facce di nichel — della Inco. Vogliono metterlo sotto torchio per avere informazioni sui giacimenti minerali del suo mondo. Sono convinto che darebbe una mano ben volentieri, ma ha bisogno di tempo per abituarsi alla sua nuova condizione.»
«Hai ragione» convenne Mary. «Ma cosa possiamo fare per aiutarlo?»
«Domani mattina finisce la quarantena, no? Gillian mi ha consigliato di tenere un'altra conferenza stampa, domani mattina alle dieci. Naturalmente tutti si aspetteranno di trovare Ponter, quindi dovremo portarlo fuori di qui prima di quell'ora.»
«E come?» domandò Louise. «La polizia ha circondato tutto l'isolato, con il pretesto che qualcuno potesse infastidirci, ma la vera ragione era sorvegliare Ponter.»
Reuben annuì. «Uno di noi deve portarlo in campagna, lontano dalla confusione. Io sono il suo medico, e questa è una prescrizione in piena regola: tranquillità e riposo. Lo dirò a tutti. Certo, possiamo tirare avanti così un giorno o due, prima che i grossi calibri di Ottawa ci piombino addosso, ma sono convintissimo che Ponter ne abbia veramente bisogno.»
«Ci penso io» si sorprese a dire Mary. «Lo porto via io.»
Reuben guardò Louise, che si limitò ad annuire.
«Se avvertiamo la stampa che la conferenza è per le dieci, cominceranno ad arrivare almeno un'ora prima» rifletté Reuben. «Quindi se ve la battete dal giardino, diciamo prima delle otto, li freghiamo tutti. Oltre quegli alberi, laggiù, c'è uno steccato: lo passerete facilmente. Dovete solo fare attenzione a non farvi vedere.»