«E poi? Dove andremo?»
«Ci vorrebbe una macchina» suggerì Louise.
«La mia è rimasta alla miniera» si ricordò Mary. «E non posso prendere le vostre: la polizia ci fermerebbe di sicuro. Come ha suggerito Reuben, dobbiamo sgattaiolare via.»
«Questo non è un problema» assicurò Louise. «Posso chiedere a un amico di farsi trovare su una qualunque delle stradine che passano dietro la casa. Vi porterà alla miniera, così potrà recuperare la sua auto.»
Mary sbatté le palpebre. «Davvero?»
«Certo.»
«Io… non conosco questa zona» disse Mary. «Mi servirebbe una carta stradale.»
«Nessun problema» disse Louise. «Conosco la persona che fa per noi: Garth. Ha una macchina con una guida satellitare, vi dirà lui la strada, dovunque vogliate andare.»
«E me la presterebbe? Quelle cose sono molto costose.»
«Be', il favore lo farebbe a me» puntualizzò la giovane ricercatrice. «Forza, fatemelo chiamare, che sistemiamo tutto.» Si alzò e andò al piano di sopra a fare la telefonata. Mary la guardò salire le scale, affascinata e attonita. Chissà come ci si sentiva, si ritrovò a pensare, a essere una donna così bella da poter chiedere agli uomini qualsiasi cosa, con la certezza che non ti avrebbero detto di no.
Mentre Ponter era l'unico a sentirsi fuori dal mondo.
Jasmel e Adikor presero un cubo volante per tornare a casa. Durante il tragitto parlarono poco, un po' perché Adikor stava ripensando alle rivelazioni fatte da Daklar, ma anche perché a nessuno dei due andava a genio l'idea che qualcuno all'archivio degli alibi potesse controllare ogni parola che si scambiavano.
E comunque avevano un problema irrisolto: Adikor doveva assolutamente scendere nel laboratorio; la pur minima possibilità ancora esistente di salvare Ponter, o anche di recuperarne in qualche modo il corpo — anche se di questa ipotesi non aveva parlato a Jasmel — dipendeva da questo. Ma come fare? Diede un'occhiata al suo Companion, nel polso sinistro. Si chiese se fosse possibile strapparlo via, facendo però attenzione a non danneggiare l'arteria radiale. Una volta sconnesso dal corpo l'impianto non avrebbe più trasmesso i suoi segnali vitali. E non poteva nemmeno trapiantarlo su Jasmel o su qualcun altro, perché era tarato sulle sue caratteristiche biometriche.
Il cubo li lasciò di fronte a casa. In cucina, Jasmel si mise a cercare qualcosa da mangiare per Pabo, mentre Adikor si accomodava, lo sguardo perso sulla sedia su cui Ponter era solito sistemarsi per leggere.
Eludere la sorveglianza speciale era un problema di alta tecnologia, considerò. Doveva pur esserci un modo per raggirare il suo Companion e chiunque stesse controllandone le trasmissioni.
Conosceva la storia di Lonwis Trob, l'ideatore della tecnologia dei Companion, che aveva lavorato all'Accademia, ma ormai era trascorso molto tempo, e non ne ricordava più i dettagli. Naturalmente poteva sempre chiedere le informazioni necessarie al Companion, ma la cosa avrebbe attirato l'attenzione.
Cominciò a sentire l'ira montargli dentro, i muscoli tesi, il battito cardiaco accelerato e il respiro affannoso. Pensò di mascherare questo suo stato, e… ma no, chi lo guardava doveva sapere come lo stavano riducendo!
Nonostante l'abilità di Trob, doveva pur esserci un modo per fare quello che aveva in mente, quello che doveva assolutamente fare. In pratica, di che si trattava? Mettere esattamente a fuoco il problema, come gli avevano insegnato all'Accademia. Nel caso in questione, cosa avrebbe dovuto fare?
No, non si trattava di eliminare tutti i Companion, anche se sarebbe stata l'unica cosa da fare, visto che non era riuscito a trovare il modo di mettere fuori uso il suo. In realtà, sarebbe stato irragionevole disattivare tutti i Companion, che in effetti erano posti a salvaguardia della vita. Era il suo che doveva disattivare, ma…
Ma no, anche questo era sbagliato. Non doveva disattivare un bel niente. Se lo avesse fatto, Gaskol Dut e gli altri addetti alla sicurezza non lo avrebbero potuto rintracciare, ma si sarebbero allarmati: non ci voleva un Lonwis per capire che avrebbe cercato di entrare nel suo laboratorio.
No, il vero problema non era che il suo Companion trasmettesse le informazioni, quanto il fatto che qualcuno le controllasse. Quello doveva impedire, e per parecchi decimi di giorno, e…
E d'incanto gli venne in mente la soluzione ideale.
Ma non poteva riuscirci da solo; Jasmel doveva aiutarlo. Con ogni probabilità, l'unico Companion posto sotto controllo era il suo; ogni altro controllo sarebbe stato illegittimo. Ma come comunicare con Jasmel di nascosto?
Si alzò e si diresse in cucina. «Jasmel, portiamo a spasso Pabo.»
La ragazza lo guardò come a dire 'e ti sembra questo il momento?', ma si alzò e lo seguì, insieme al cane che aveva capito le loro intenzioni.
Uscirono nell'aria calda e umida dell'estate, piena del canto stridulo delle cicale. Scesero gli scalini della veranda, con Pabo che correva avanti abbaiando. Giunsero al ruscello che scorreva a poche centinaia di passi da casa. Il rumore dell'acqua che scorreva veloce smorzò il frastuono delle cicale. Al centro del ruscello c'era un grosso macigno, uno degli innumerevoli massi erratici disseminati nei boschi. Adikor attraversò il ruscello poggiando i piedi sulle pietre e fece segno a Jasmel di seguirlo, mentre Pabo scorrazzava libera lungo la riva.
Sul grosso masso si sedettero l'uno accanto all'altra, e Adikor cominciò a bisbigliarle il suo progetto. Era sicuro che il Companion non avrebbe potuto registrare le parole per via del rumore dell'acqua che si frangeva contro la pietra. E quando ebbe finito, vide un sorriso malizioso disegnarsi sul viso della ragazza.
Ponter sedeva sul divano nello studio di Reuben. Gli altri erano andati tutti a dormire, anche se Reuben e Louise, nella stanza accanto, erano ancora svegli.
Era molto triste. I rumori e gli odori che percepiva gli portavano alla mente Klast, il periodo in cui Due diventano Uno, tutto quello che aveva perso e che non avrebbe più potuto avere.
Nel televisore scorrevano immagini di quella cosa che quella specie di umani aveva chiamato religione. Dovevano esserci diverse variazioni sul tema, ma tutte prospettavano un Dio - ecco che ricompariva quel concetto astruso — e un universo finito e ridicolmente giovane, e una sorta di esistenza ultraterrena per… non esisteva nella sua lingua un equivalente esatto, ma la parola usata da Mare era stata 'anima.' Aveva scoperto che il simbolo che Mare portava appeso al collo aveva a che fare con quella particolare religione di cui era seguace, e che la stoffa che Reuben aveva avvolto attorno alla sua testa era il simbolo di qualche altra religione.
Ponter aveva abbassato l'audio; era stato semplice trovare il pulsante, anche se aveva temuto che i suoi tentativi potessero disturbare la coppia nella stanza accanto.
«Come ti senti?» chiese la voce di Klast. Il cuore gli balzò in petto.
Klast!
L'amata Klast, che gli parlava da…
Dall'aldilà!
Ma no.
Certo che no.
Era solo Hak.
Probabilmente sarebbe stato costretto ad ascoltare per sempre la voce di Klast: per riprogrammare l'impianto avrebbe avuto bisogno di strumenti che lì non poteva certo procurarsi.
Emise un lungo sospiro, quindi rispose: «Sono triste.»
«Ma adesso va meglio, vero? Eri piuttosto sconvolto quando siamo arrivati qui.»
Ponter scrollò lievemente le spalle. «Non lo so. Mi sento ancora confuso e disorientato, ma…»
Si immaginò Hak che annuiva, comprensivo, nel suo spazio virtuale. «Ci vorrà del tempo» lo consolò il Companion, sempre con la voce di Klast.