Mary trascorse il breve viaggio a revisionare gli appunti che aveva nel computer portatile; erano trascorsi anni dalla pubblicazione su Science del suo studio sul DNA della specie dei Neandertal. Mentre leggeva, mulinava tra le dita la collanina d'oro con la piccola croce che portava sempre al collo.
Nel 1994 era diventata famosa rinvenendo materiale genetico di un orso vissuto trentamila anni fa, trovato congelato nei ghiacci dello Yukon. E due anni dopo, quando la Rheinisches Amt für Bodendenkmalpflege - l'agenzia archeologica del Rhineland — aveva deciso che era arrivato il momento di provare a estrarre del DNA dal fossile più celebre, quello dell'uomo di Neandertal, si erano rivolti a lei. Mary non aveva accettato subito. Non essendo congelato, il reperto era deidratato, e — ma su questo le opinioni erano divergenti — poteva avere anche centomila anni, più di tre volte l'età dell'orso. Ma la sfida era estremamente affascinante. Nel giugno del 1996 era volata a Bonn, al Rheinisches Landesmuseum, dove il fossile era conservato.
La parte più conosciuta — la calotta cranica con le orbite ampie sormontate da prominenti rilievi sopraorbitari — era esposta al pubblico, mentre il resto delle ossa erano conservate in un mobiletto di acciaio, all'interno di un caveau sotterraneo. L'aveva accompagnata un paleoantropologo, un certo Hans. Avevano indossato incerate e mascherine, perché bisognava prendere tutte le precauzioni del caso per evitare di adulterare le ossa e il DNA. Cosa che era accaduta dopo il primo ritrovamento, ma dopo centocinquanta anni il DNA di chi aveva rinvenuto lo scheletro, privo di protezione, doveva essersi ormai completamente degradato.
Mary poté prendere solo un frammento di ossa: il clero di Torino preservava la sacra Sindone con lo stesso zelo. E comunque fu un lavoro estremamente difficoltoso; per lei come per Hans era un po' come violare una grande opera d'arte. Si ritrovò ad asciugarsi le lacrime mentre Hans con una seghetta da orafo incideva l'omero destro, la parte meglio conservata dello scheletro, ricavando un pezzo semicircolare largo un centimetro, di soli tre grammi di peso.
Per fortuna, lo strato resistente di carbonato di calcio che rivestiva la parte esterna dell'osso avrebbe preservato l'eventuale DNA ancora presente all'interno. Aveva portato il campione nel suo laboratorio di Toronto e ne aveva ricavato ulteriori frammenti.
Ci vollero cinque mesi di lavoro scrupoloso per estrarre un frammento di nucleotide 379 dalla zona di controllo del DNA mitocondriale dell'esemplare del Neandertal. Mary si servì della reazione della catena polimerasi per riprodurre milioni di copie del DNA rinvenuto, e ne stabilì accuratamente la sequenza. Quindi esaminò i frammenti corrispondenti del DNA mitocondriale di 1.600 esseri umani moderni: nativi canadesi, polinesiani, australiani, africani, asiatici ed europei. Ognuno di quei 1.600 esemplari aveva in comune almeno 371 nucleotidi su 376, e la deviazione massima era di appena otto nucleotidi.
Invece, il DNA del Neandertal aveva in comune con gli esemplari moderni solamente una media di 352 nucleotidi; la deviazione era su una base di ben 27. Date le differenze, Mary concluse che il DNA dei Neandertal e quello delle altre specie umane avevano cominciato a divergere tra i 550.000 e i 690.000 anni fa. Al contrario, tutti gli esseri umani moderni hanno un antenato comune di un'età compresa tra i 150.000 e i 200.000 anni. Anche se l'oltre mezzo milione di anni che separano la specie dei Neandertal da quella dell'essere umano moderno era molto più recente della separazione verificatasi tra la specie dell'Homo e i suoi affini più prossimi, gli scimpanzé e i babbuini, che ebbe luogo da cinque a otto milioni di anni fa, era comunque un lasso di tempo considerevole, tanto da farle ipotizzare che i Neandertal, più che una subspecie, erano probabilmente una specie completamente separata dagli umani moderni: Homo neanderthalensis, e non Homo sapiens neanderthalensis.
Non tutti concordavano con questa teoria. Milford Wolpoff dell'Università del Michigan era convinto che i geni dei Neandertal erano tutti entrati nella specie dell'Homo sapiens europeo, e sosteneva che ogni prova sul DNA che dimostrasse il contrario era il frutto di una sequenza anormale o di un travisamento dei dati.
Ma molti paleoantropologi sposarono la tesi di Mary, anche se tutti, lei per prima, ammettevano che la teoria andava suffragata con ulteriori ricerche… quando si fossero trovati altri campioni di DNA della specie dei Neandertal.
E adesso, forse, chissà, qualcosa era stato trovato. Era impossibile che si trattasse di un autentico Neandertal, ma se così fosse stato…
Mary chiuse il portatile e guardò fuori dal finestrino. Sotto si stendeva la parte settentrionale dell'Ontano, con le montagne dello scudo canadese punteggiate di pioppi e di betulle. L'aereo cominciò a planare.
Reuben Montego non aveva la più pallida idea di come fosse fatta Mary Vaughan, ma essendo l'unica passeggera, non ebbe difficoltà a individuarla. Era una bianca, sulla quarantina o giù di lì, con capelli color miele che si scurivano alla radice. Forse aveva qualche chilo di troppo, e quando le si avvicinò notò che la notte precedente doveva aver dormito poco.
«Professoressa Vaughan» disse porgendole la mano. «Sono Reuben Montego, il medico del distretto minerario di Creighton. La ringrazio di cuore per essere venuta.» Poi presentò la ragazza che era con lui: «La signorina è Gillian Ricci, addetta stampa della Inco; si occuperà di lei.»
A Reuben parve che fosse sin troppo contenta della giovane e attraente accompagnatrice; forse era lesbica, pensò. Si offrì di portarle la valigia: «Dia pure a me.»
Mary gli cedette il bagaglio, e per tutto il tragitto, mentre attraversavano la piazzola sotto il cocente sole estivo, rimase alle calcagna della ragazza. Reuben e Gillian portavano occhiali da sole; lei, che evidentemente non aveva pensato a prenderne un paio, socchiudeva gli occhi per ripararsi dalla luce intensa.
Quando giunsero alla macchina di Reuben, una Ford Explorer color vinaccia, Gillian fece per accomodarsi sul sedile posteriore, ma Mary la fermò con voce sin troppo alta: «No, vado io dietro. Ho bisogno… ho bisogno di stendermi un po'.»
Quelle strane parole aleggiarono per qualche secondo, poi Reuben vide Gillian scrollare impercettibilmente le spalle e prendere posto sul sedile anteriore.
Andarono direttamente all'ospedale St. Joseph, in Paris Street, situato appena dopo l'edificio a forma di fiocco di neve del museo Science North. Durante il tragitto Reuben la informò brevemente dell'incidente verificatosi all'osservatorio e dello strano essere che vi avevano trovato.
Entrando nel parcheggio dell'ospedale, Reuben notò tre furgoncini delle stazioni televisive locali. Di certo gli addetti alla sicurezza dell'ospedale stavano tenendo i reporter lontani da Ponter, anche se, c'era da scommetterci, i giornali avrebbero seguito la vicenda molto da vicino.
Entrarono nella stanza 3-G, dove Ponter era in piedi davanti alla finestra, le grosse spalle alla porta. Stava salutando qualcuno con la mano: lì fuori dovevano esserci delle telecamere. Una celebrità che veniva incontro alle loro esigenze, pensò Reuben. I media avrebbero amato quel tipo.
Reuben si schiarì la voce educatamente, e Ponter si girò. La luce della finestra rendeva sfuggente la sua figura, ma, appena fece qualche passo avanti, il dottore si illuminò nel vedere Mary spalancare la bocca. Lo aveva appena intravisto alla televisione, disse, ma dal vivo era tutta un'altra cosa.
A un certo punto si lasciò sfuggire: «Beccati questo, Carleton Coon.»
«Come?» chiese Reuben meravigliato.