Выбрать главу

«Le hanno fatto del male?» le chiese la consulente con fare premuroso.

Del male. Sì, era l'approccio giusto. Era più facile ammettere che qualcuno ti abbia fatto del male piuttosto che impiegare quella brutta parola con la S.

Mary annuì.

«Dovrò farle delle domande» la avvertì la ragazza. Aveva dei grandi occhi nocciola, e un cerchietto d'oro su una narice. «È successo oggi?»

Mary scosse la testa.

Per una frazione di secondo la giovane parve… be', delusa non era la parola giusta, pensò Mary, ma la cosa sarebbe stata indubbiamente più emozionante se fosse appena accaduta, se avesse potuto usare l'occorrente per raccogliere delle prove, e se…

«Ieri. È accaduto ieri sera» furono le sue prime parole.

«È stato… qualcuno di sua conoscenza?»

«No» rispose, ma poi si bloccò. In realtà non avrebbe potuto affermarlo con sicurezza. Il mostro indossava un passamontagna; poteva essere chiunque: un suo studente, un collega, qualcuno dell'amministrazione, un delinquentello di periferia. Chiunque. «Non lo so. Aveva… aveva un passamontagna.»

«Lo so che le ha fatto del male» disse la ragazza prendendole la mano e portandola al centro della stanza. «Le ha procurato qualche ferita? Ha bisogno di un dottore?» Alzò la mano e aggiunse: «Abbiamo una dottoressa davvero in gamba.»

Mary scosse di nuovo la testa. «No» disse. «Aveva un…» la voce le venne meno, con sua grande sorpresa. «Aveva un coltello ma non l'ha usato.»

«Animale» disse la donna.

Mary annuì convinta, sollevata da tanta partecipazione emotiva.

La ragazza la condusse in un'altra stanza, dalle pareti rosate. C'erano due poltrone, ma nessun divanetto: persino lì, in quel santuario, la vista di un divano poteva essere offensiva per chi aveva subito una violenza sessuale. La fece accomodare su una poltrona imbottita, e le si sedette di fronte, tenendole dolcemente la mano.

«Vuole dirmi il suo nome?»

Mary pensò di darle un nome falso, ma non voleva mentire a quella ragazza così dolce, che con tanto impegno stava cercando di aiutarla. Forse avrebbe potuto usare il suo secondo nome, Nicole; dopotutto non sarebbe stata una bugia e avrebbe mantenuto l'anonimato, ma quando parlò venne fuori: «Mary. Mary Vaughan.»

«Mary, io sono Keisha.»

«Quanti anni ha?»

«Diciannove.»

Così giovane. «E… è mai stata…»

Keisha strinse le labbra e annuì.

«Quando?»

«Tre anni fa.»

Mary spalancò gli occhi. Appena sedici anni. Era possibile che… mio Dio, la sua prima volta, uno stupro. «Mi dispiace» le disse.

Keisha chinò il capo, annuendo. «Non ti dico che lo dimenticherai, Mary, ma puoi superarlo. E noi ti aiuteremo a farlo.»

Mary chiuse gli occhi e respirò a fondo, poi espirò lentamente. Sentiva la mano della ragazza stringere dolcemente la sua, quasi a infonderle forza. Infine riuscì a dire: «Lo odio.» Riaprì gli occhi. Il viso della ragazza aveva l'espressione premurosa di chi vuole davvero rendersi utile. «E…» aggiunse esitante, con un filo di voce «mi odio per non aver fatto nulla per evitarlo.»

Keisha annuì e la abbracciò, continuando a tenerle la mano, dolcemente.

18

Adikor e Jasmel lasciarono la miniera e andarono a casa. Le luci si accesero a un comando vocale di Adikor. La ragazza si guardò intorno con grande interesse: era la prima volta che entrava nella casa del padre. Di solito, nel periodo in cui Due diventano Uno, erano gli uomini a recarsi al Centro. Gironzolando tutta incuriosita, fu attratta dalla collezione di statuine. Fu assalita da un'ondata di tristezza. Sapeva che al padre piacevano quelle lavorate in pietra raffiguranti i roditori, e ogni volta che si vedevano, durante le eclissi lunari, gliene regalava una. In particolare, preferiva quelle lavorate con minerali di rocce esotiche. A giudicare dalla posizione, il pezzo che più lo inorgogliva era una statuetta più piccola delle altre, raffigurante un castoro, in malachite importata dalla zona centrale dell'Evsoy.

In quel frangente, il Companion di Adikor squillò. L'uomo rispose: «Buongiorno. Oh, ma è meraviglioso, amore mio. Che bella novità! Aspetta un attimo…» E rivolgendosi a Jasmeclass="underline" «Ascolta anche tu. È la mia compagna, Lurt. Ha analizzato il liquido che ho trovato nel laboratorio dopo la scomparsa di tuo padre.» Quindi attivò l'altoparlante.

«Qui con me c'è la figlia di Ponter, Jasmel Ket. Dillo anche a lei.»

«Buongiorno, Jasmel» disse Lurt.

«Anche a te» rispose Jasmel.

«Bene,» continuò Lurt «vi darò una notizia sorprendente. Sai cos'è quel liquido che mi hai fatto analizzare?»

«Credevo fosse acqua» disse Adikor. «Non è così?»

«Una specie. Si tratta di acqua pesante.»

«Davvero?» si meravigliò Adikor.

«Già. Acqua pesante purissima. Naturalmente le sue molecole si trovano anche allo stato naturale; per esempio nell'acqua piovana sono presenti in una quantità dello zero virgola uno per cento. Ma per ottenere una concentrazione come questa… a dire il vero, non saprei proprio come si possa fare. Se si considera che questo tipo di acqua è circa il dieci per cento più pesante di quella normale, immagino che bisognerebbe creare una tecnica in grado di frazionare naturalmente l'acqua normale, ma per produrre tutta quella che mi hai detto di aver trovato ci vorrebbe una quantità enorme di acqua. Non conosco nessun laboratorio in grado di ottenere un simile risultato, inoltre non ne vedo la ragione.»

Adikor guardò Jasmel, poi di nuovo il polso. «Non è possibile che si tratti di una sostanza presente in natura? Non potrebbe essere sgorgata dalle rocce?»

«Escluso» rispose Lurt perentoria. «Ho solo trovato delle tracce di una soluzione che probabilmente è stata usata per pulire il pavimento del vostro laboratorio, i cui residui polverosi si sono dissolti nell'acqua, ma a parte questo il liquido che ho analizzato era purissimo. L'acqua delle rocce avrebbe presentato tracce di minerali. No, credimi, questa è stata fabbricata. Da chi e come non lo so, ma una cosa è certa: una tale quantità non esiste in natura.»

«Affascinante» rifletté Adikor. «E non hai trovato tracce del DNA di Ponter?»

«No. Ne ho trovato un po' del tuo — indubbiamente ti è caduta qualche cellula mentre raccoglievi l'acqua — ma questo è tutto. Né ho trovato tracce di plasma o altro che gli appartenesse.»

«Bene. Ti ringrazio moltissimo!»

«Buona giornata, caro» lo salutò.

«Buona giornata» ripeté Adikor interrompendo la comunicazione.

«Cos'è l'acqua pesante?» domandò Jasmel.

Adikor glielo spiegò, aggiungendo: «Deve essere la chiave del mistero.»

«Hai trovato per davvero l'acqua pesante?»

«Ma certo. L'ho raccolta dal pavimento della sala dei registri dopo la sua scomparsa.»

«Non è velenosa, vero?»

«L'acqua pesante? Non vedo perché dovrebbe esserlo.»

«A cosa serve?»

«A niente, per quanto ne so io.»

«C'è qualche possibilità che il corpo di mio padre possa essere stato in qualche modo, che so, trasformato in acqua pesante?»

«Lo escluderei» rispose Adikor. «Infatti non ci sono tracce dei composti chimici del suo corpo. Non si è disintegrato, né bruciato; è semplicemente scomparso nel nulla.» Scosse la testa, quindi aggiunse: «Forse domani, al dooslarm basadlarm, potremo spiegare al giudice perché dobbiamo assolutamente tornare nel laboratorio. Per ora, spero solo che Ponter stia bene, ovunque si trovi.»

Dopo aver accompagnato Mary Vaughan al laboratorio di genetica dell'università Laurenziana, Reuben Montego aveva mangiato qualcosa al volo in un Taco Bell ed era tornato all'ospedale St. Joseph. Nell'ingresso scorse Louise Benoit, la bellissima ricercatrice francocanadese che studiava all'osservatorio, che stava discutendo con qualcuno della vigilanza.