Finalmente giunsero alla miniera, sfrecciando davanti al cartello della Inco e ai cancelli di sicurezza, sbandando sul viottolo serpeggiante che conduceva all'edificio dove erano situati gli ascensori. Frenò di botto e l'auto slittò, sollevando del pietrisco. Scesero di corsa, all'unisono.
Adesso Ponter non aveva più bisogno di aspettarla, e il tempo era fondamentale. Chi poteva dire quanto ancora sarebbe rimasto aperto il varco? O anche, chi poteva dire che fosse davvero aperto? La guardò, fece un balzo verso di lei, la strinse in un abbraccio e le disse: «Grazie, grazie di tutto.»
Mary gli si avvinghiò, più forte che poté, ma probabilmente niente in confronto a una donna Neandertal.
Poi lo lasciò andare.
E Ponter volò via.
44
Adikor, Jasmel e Dern, con lo sguardo incollato sui monitor, seguivano la scena che si stava svolgendo a pochi metri… e a una distanza incalcolabile da loro.
«Hanno un aspetto così fragile» disse Jasmel, inarcando il sopracciglio. «Le braccia sembrano dei ramoscelli.»
«Non quella lì. Deve essere incinta» disse Dern indicando la figura.
Adikor socchiuse gli occhi per vedere meglio. «Non è una donna. È un uomo.»
«Con quel pancione?» disse Dern incredulo. «E io che pensavo di essere grasso! Ma quanto mangiano questi Gliksin?»
Adikor scrollò le spalle. Non aveva tempo da perdere in chiacchiere: divorava con lo sguardo ogni particolare, per assorbire quante più informazioni possibili. Un'altra specie di umanità! E persino tecnologicamente avanzata. Incredibile. Oh, quanto avrebbe voluto scambiare con loro nozioni di fisica, biologia, e…
Biologia.
Ecco cosa gli serviva. Molti di loro avevano toccato il robot, quindi dovevano avervi lasciato sopra delle cellule: non sarebbe stato difficile estrarne il DNA. Ecco una prova che il giudice Sard avrebbe accettato! Il DNA dei Gliksin, la prova dell'autenticità delle immagini che stavano registrando. Ma…
Chi poteva dire per quanto tempo ancora il varco sarebbe rimasto aperto, o se sarebbe stato possibile riaprirlo? Comunque, per lo meno lo avrebbero assolto, salvando così la sua famiglia.
«Recupera il robot» disse a Dern.
L'uomo lo guardò stupito. «Cosa? Perché!?»
«Dovremmo trovarci il DNA dei Gliksin. Se si chiude il varco, lo perderemo.»
Dern annuì. Attraversò la sala, raccolse il cavo di fibra ottica e diede uno strattone. Adikor tornò a guardare lo schermo. Il Gliksin più vicino — un esemplare dalla pelle bruna, all'apparenza un maschio — fissò allibito il robot che filava via verso l'alto.
Dern tirò ancora il cavo; il Gliksin bruno adesso si era voltato, evidentemente in cerca di qualcun altro. Urlò qualcosa, poi annuì rispondendo a qualcuno che gli aveva gridato qualcosa di rimando. Afferrò la base del robot, che dondolava nel vuoto ad altezza d'uomo.
Un aitro Gliksin entrò nel campo visivo della telecamera. Era un esemplare più basso, dalla pelle chiara quanto quella di Adikor, con occhi… strani: scuri, seminascosti da palpebre troppo sporgenti.
I due si guardarono; il nuovo venuto scuoteva la testa vigorosamente, ma non rivolto verso il compagno. Guardava dritto nelle lenti di vetro del robot, agitando le braccia, le mani protese a palmi in giù, spingendole avanti e indietro davanti al torace. E continuava a gridare una sola parola: «Aspetta! Aspetta! Aspetta!»
Era chiaro, rifletté Adikor, che anche loro volevano un oggetto che provasse la straordinarietà dell'evento: avrebbero fatto di tutto per non farsi sfuggire il robot. Si voltò di scatto verso Dern urlando: «Tiralo su!»
Mary Vaughan raggiunse Ponter all'estremità dell'edificio dove erano gli ascensori, poco oltre lo spogliatoio dei minatori. Il Neandertal aspettava davanti alla porta chiusa; la cabina poteva trovarsi ovunque. anche a duemiladuecentocinquanta metri al di sotto della superficie. Aveva convinto l'operatore a portarla a quel piano, ma sarebbero comunque passati diversi minuti.
Nessuno dei due aveva alcuna autorità lì nella miniera, dove erano affissi ovunque cartelli con le regole per la sicurezza. La Inco disponeva di un'invidiabile massa documentaria per quanto concerneva la prevenzione degli incidenti. Ponter aveva già indossato gli stivali d'ordinanza e il casco di protezione, cosa che fece anche Mary. Gli si mise accanto, notando il piede che batteva a terra con impazienza.
Finalmente la cabina giunse al piano, vuota. Entrarono, l'operatore suonò cinque volte il segnalatore acustico: discesa senza fermate intermedie. Sobbalzando, la cabina cominciò finalmente a scendere.
Lì dentro non c'era modo di comunicare con l'esterno, a eccezione di un pulsante che avrebbe segnalato all'operatore eventuali problemi. Durante la folle corsa, Mary aveva parlato pochissimo, in parte perché concentrata alla guida, ma anche perché il cuore correva almeno quanto l'automobile.
Ma adesso…
Aveva a disposizione il tempo che l'ascensore avrebbe impiegato a percorrere due chilometri. Naturalmente, appena si fossero aperte le porte Ponter sarebbe schizzato via, né poteva biasimarlo. Non c'era tempo da perdere, e l'ascensore distava ottocento metri dalla caverna.
Piano dopo piano, Mary vedeva le luci comparire e svanire: uno spettacolo certo affascinante, ma…
Doveva fare in fretta: con ogni probabilità quella era l'ultima possibilità che aveva di parlargli. Se sotto un certo aspetto la discesa sembrava non avesse mai fine, sotto un altro ci sarebbero voluti ore, giorni, forse persino anni per comunicargli tutto quello che sentiva.
Non sapeva da dove cominciare, ma era sicura che se non avesse parlato, se non gli avesse spiegato, non se lo sarebbe mai perdonata. Anche se, a pensarci, non è che Ponter stesse per scomparire in un passato irrecuperabile; dopo tutto stava solo andando dall'altra parte: le dimensioni temporali delle due versioni della Terra erano le stesse. Domani sarebbe stato domani per entrambi, e così il decimo anniversario del loro incontro, anche se i Neandertal avevano un sistema diverso per misurare il tempo. Era comunque sicura che anche lui un giorno avrebbe riflettuto, cercando di dare un senso al coacervo di emozioni provate insieme a lei, si sarebbe stupito e avrebbe provato un velo di tristezza per quello che sarebbe potuto essere e non era stato.
Infine si decise: «Ponter.» Aveva parlato piano: il clangore dell'ascensore gli aveva forse impedito di sentire. Aveva lo sguardo perso oltre la porta della cabina, sulle rocce scure che scorrevano loro davanti mentre affondavano nelle viscere della terra.
«Ponter» chiamò ancora, più forte.
Si voltò a guardarla, inarcando il lungo sopracciglio. Gli sorrise. Si era abituata a quell'espressione eccentrica, che sulle prime la sconcertava. Avevano molte più cose in comune di quante fossero le differenze.
Eppure, ancora adesso, sin dall'inizio e per tutto il tempo che avevano trascorso insieme, c'era stato come un abisso tra loro, causato non tanto dall'appartenere a due specie diverse, quanto più semplicemente dal sesso. E non era soltanto per questo: lui non era genericamente maschio, ma era incredibilmente maschio: muscoloso come Arnold Schwarzenegger, pelosissimo, insieme poderoso, rozzo e goffo.
«Ponter» lo chiamò per la terza volta. «C'è… una cosa che volevo dirti.» Si fermò. Una parte di lei le consigliava di lasciar perdere, di tenere per sé i suoi sentimenti. Del resto, potevano anche trovare già chiuso il varco che si era così magicamente aperto; nel quel caso avrebbe continuato a vederlo ogni giorno dopo aver messo a nudo la sua anima, quell'essenza immateriale che, era convinta, avevano entrambi, anche se per lui non era così.