«Sì?» disse Ponter.
«Entrambi pensavamo che una fatalità irripetibile ti aveva portato in questa versione della Terra, e che saresti rimasto qui per sempre.»
Ponter annuì, scrollando il faccione che annuiva nella semioscurità.
«Pensavamo che non potessi più rivedere Jasmel, Megameg o Adikor» continuò. «E anche se so bene che il tuo cuore appartiene a tutti loro, ora e per sempre, avevo anche pensato che ti fossi rassegnato a vivere qui da noi, su questa Terra.»
Ponter annuì ancora, distogliendo lo sguardo. Forse aveva capito quello che stava per dirgli, e pensava che non ci fosse nulla da aggiungere.
Ma doveva farlo. Doveva fargli capire che non era stata colpa sua, ma di lei.
No, no. Non era così. Non era nemmeno colpa sua, ma di quel mostro senza faccia, quel demonio. Era lui che si era intromesso tra di loro.
«Poco prima che ci conoscessimo, il giorno del tuo arrivo qui a Sudbury, io sono…»
Le mancarono le parole. Sentiva il cuore martellare nel frastuono del montacarichi che affondava nella roccia.
Superarono il livello dei tremilacinquecento metri. Intravide un minatore in una galleria, in attesa di risalire; lo stridente raggio di luce del suo casco saettò nella cabina, scivolando sui loro volti, intrusi in quel luogo.
Ponter aspettava. E lei parlò: «Quella notte, sono stata…»
Avrebbe voluto pronunciare la parola, serenamente, coraggiosamente, ma non le riuscì. «Io… mi hanno fatto del male» disse infine.
Ponter piegò il capo da un lato, perplesso. «Ti hanno ferita? Mi dispiace.»
«No. Voglio dire che… è stato un uomo a farmi del male.» Respirò a fondo. «Sono stata assalita, a York, nel campus dell'università dove lavoro, di sera.» Dettagli inutili che allontanavano la parola che sapeva di dover dire. Abbassò lo sguardo sul pavimento di metallo ricoperto di fango. «Sono stata violentata.»
Hak emise il solito bip. Ebbe il buon senso di farlo suonare forte, per superare il frastuono del montacarichi. Mary ci riprovò. «Sono stata assalita. Sessualmente assalita.»
Anche nel trambusto sentì Ponter fare un gran sospiro. Alzò la testa e ne cercò lo sguardo dorato nella semioscurità. Gli occhi guizzavano in cerca di qualche reazione, cercando di intuire i suoi pensieri.
«Mi dispiace moltissimo» disse Ponter dolcemente.
Non le venne altro da dire che: «Non è stata colpa tua.»
«No» disse Ponter. Adesso era lui a non sapere cosa dire, finché non le chiese: «Ti hanno fatto… molto male?»
«Un po' maltrattata, niente di grave. Ma…»
«Capisco» disse Ponter, che rimase qualche attimo in silenzio prima di chiedere: «Sai chi è stato?»
Mary scosse il capo.
«Sicuramente le autorità hanno visionato il tuo archivio degli alibi e…» Distolse lo sguardo, tornando a fissare la roccia illuminata a intermittenza dalle luci dei piani. «Scusa.» Si fermò di nuovo. «Allora… non verrà punito per quello che ha fatto?» disse ad alta voce, malgrado la delicatezza dell'argomento, in modo che Hak potesse sentire le parole in quel baccano.
Mary percepì la rabbia e l'indignazione dal tono della voce.
Emise un sospiro e annuì mestamente. «È probabile.» Rimase un attimo in silenzio, poi proseguì: «Io… non ne abbiamo mai parlato, ma te lo voglio dire. Forse sto osando troppo. Nel nostro mondo, lo stupro è considerato un crimine molto grave. Non so…»
«Anche nel mio» disse Ponter. «Alcuni animali lo fanno — gli orangutango, per esempio — ma noi siamo esseri umani, non animali. Naturalmente, noi abbiamo l'archivio degli alibi, per cui sono in pochi a farlo, ma quando si verifica una cosa del genere, si viene puniti duramente.»
Rimasero per un po' senza parlare. Ponter aveva il braccio leggermente sollevato, come se avesse intenzione di abbracciarla, di consolarla, ma distolse lo sguardo, con un'espressione sorpresa sul viso, come se avesse visto un corpo estraneo, e lo abbassò.
Mary si trovò ad accarezzargli il braccio muscoloso, delicatamente, esitante. Poi la mano scivolò lungo il braccio, cercò la mano e intrecciò le dita esili con quelle massicce di lui.
«Desidero che tu capisca» gli disse. «Da quando sei qui tra noi si è creata una grande intimità. Abbiamo parlato di tutto, e, be', come ti ho già detto, pensavi che non saresti più tornato a casa, e che avresti costruito una nuova vita qui.» Si fermò. «Non hai mai forzato le cose, non hai mai approfittato della situazione. Credo che tu sia l'unico uomo su questo pianeta con cui posso rimanere da sola senza sentirmi a disagio, ma…»
Ponter strinse delicatamente le sue tozze dita.
«Era troppo presto» continuò Mary. «Capisci? Io… io so che ti piaccio, e…» Si fermò ancora. Sentiva arrivare le lacrime. «Mi dispiace. Non mi è accaduto spesso, però c'è stato un tempo in cui gli uomini mi trovavano attraente, ma, be'…»
«Ma quando quell'uomo è diverso dagli altri…»
Mary scosse la testa e lo guardò negli occhi. «No, no. Non è questa la ragione. Non è per come sei fatto…»
Lo vide irrigidirsi nella luce intermittente. Non lo trovava brutto: non più, non ora. Il suo volto era piacevole, premuroso, compassionevole e intelligente, e sì, dannazione, sì, anche… attraente. Ma non era riuscita a fargli capire tutto questo, e adesso stava cercando di spiegargli perché quella sera, quando le aveva preso la mano sotto le stelle, aveva reagito in quel modo, ferendolo.
«Voglio dire, non c'è niente di strano nel tuo aspetto fisico. Anzi, ti trovo molto…» esitò, non perché non fosse convinta di quello che stava per dire, ma perché in tutta la sua vita non si era mai spinta così in là con un uomo «bello.»
Ponter sorrise. «Non sono bello. Per lo meno per gli standard della mia gente.»
«Non me ne importa» si affrettò a dire. «Non me ne importa nulla. Cioè, non ho mai pensato che tu mi trovassi attraente fisicamente. Io sono…» abbassò la voce. «Credo di essere il tipo di donna che qui chiamano insignificante. Gli uomini non si girano a guardarmi, ma…»
«Io ti trovo straordinaria» le rivelò.
«Se avessimo altro tempo per noi! Ah, se avessi avuto più tempo per superare quel trauma,» no, era sicura che non ci sarebbe mai riuscita «le cose tra noi sarebbero andate diversamente.» Alzò appena le spalle, un gesto impotente. «Volevo dirti questo. Volevo che lo sapessi, che capissi che mi piacevi… che tu mi piaci.»
Un pensiero pazzesco le attraversò la mente. Se davvero le cose fossero andate diversamente, se fosse arrivata a Sudbury sana, e non così a pezzi, forse adesso Ponter non sarebbe corso via a velocità della luce per tornare alla sua vecchia vita, al suo mondo. Forse…
No. No, era troppo. Lì c'era Adikor ad aspettarlo. E aveva due bambine.
E comunque, se le cose fossero andate in un altro modo, chissà, lei stessa sarebbe stata pronta a oltrepassare il varco e a seguirlo nel suo mondo.
Ma le cose stavano altrimenti. La realtà era diversa.
Con un sussulto, il montacarichi si bloccò. Un suono rauco segnalò l'apertura delle porte.
45
I Gliksin erano in tumulto. Adikor non riusciva a capire cosa stesse succedendo, ma poi vide che dalla scala qualcuno si stava calando nella sala a forma di botte. La telecamera ne inquadrava la grossa schiena; forse era il loro capo che veniva a controllare lo strano oggetto venuto dal nulla.
I Gliksin gesticolavano freneticamente all'indirizzo del nuovo venuto, che si avvicinò di corsa. Il robot dondolava nell'aria, mentre Dern continuava a issare il cavo. Poi accadde l'incredibile: Adikor intravide il viso del nuovo venuto, e…
Sììììì! Incredibile! Meraviglioso!
Il cuore gli scoppiava di felicità: Ponter! Era vestito nella bizzarra foggia dei Gliksin, con quella specie di guscio di tartaruga plastificato sulla testa, ma non c'erano dubbi: Ponter Boddit era vivo e vegeto.