«Probabilmente nessuno darà la notizia, ma anche Daklar Bolbay viene aiutata con una terapia per il controllo del dolore, della rabbia e cose del genere» disse Ponter.
Adikor sorrise. «Le ho fatto conoscere il mio vecchio scultore della personalità, che l'ha messa in contatto con le persone giuste.»
«Bene» disse Dern. «Chiederai le pubbliche scuse?»
Adikor scosse il capo. «Ho di nuovo il mio Ponter, e questo mi basta» rispose semplicemente.
Dern sorrise e mandò uno dei suoi robot a prendere qualcosa da bere. «Vi ringrazio per la visita» disse sdraiandosi su un grosso divano, i piedi incrociati e le mani intrecciate dietro la testa, il ventre obeso che seguiva il movimento del respiro.
Ponter e Adikor si misero a cavalcioni delle sedie a forma di sella. «Hai detto che avevi qualcosa di importante da comunicarci» lo sollecitò Ponter cortesemente.
«Infatti» disse Dern spostando pigramente la testa per poterli vedere entrambi. «Stavo pensando che dovremmo trovare un modo di mantenere sempre aperto il varco tra le due versioni della Terra.»
«Mi è sembrato che sia rimasto aperto finché c'è stato un oggetto fisico in comune tra i due mondi» disse Ponter.
«Be', s', almeno per poco» confermò Adikor. «Ma non sappiamo se sia possibile mantenerlo permanentemente aperto.»
«Se fosse possibile» disse Ponter «ci sarebbero opportunità sbalorditive. Pensate un po': turismo, scambi commerciali, culturali, scientifici.»
«Già» disse Dern. «Dài un po' un'occhiata.» Si alzò a prendere un oggetto sul tavolino di legno levigato. Era un tubetto cavo, fatto di una maglia di filo metallico leggermente più lunga del suo dito medio e dello spessore del pollice, «È un tubetto di Derkers» spiegò. Infilò due dita in una estremità per allargarla: la membrana elastica cedette stendendosi sempre più, fino a raggiungere le dimensioni di tutta la mano, quindi Dern passò l'oggetto a Ponter. «Prova un po' a romperlo.»
Ponter lo prese tra le mani e cominciò a stringere, prima piano, poi sempre più forte, ma il tubetto non cedette.
«Questo è solo un piccolo esemplare» disse Dern «ma nella miniera ne abbiamo alcuni che raggiungono un diametro di tre braccia. Sono impiegati per rinforzare le gallerie contro il pericolo di frane. Sai, non possiamo permetterci di perdere i robot.»
«E funziona?» chiese Ponter.
«La maglia è composta da una serie di sezioni metalliche snodabili dentellate alle estremità. Quando le forzi per allargarle, l'unico modo di spezzarle è quello di aprire con una pinzetta uno per uno i dentini incastrati tra loro.»
«Quindi proponi di provare a riaprire il varco con l'altro universo e infilarci uno di questi… come si chiamano? 'Tubi di Derkers'? Infilare uno di questi tubi nell'apertura e allargarlo al massimo?» domandò Ponter.
«Esattamente» confermò Dern. «Così la gente potrebbe passare agevolmente da un universo all'altro.»
«Dall'altra parte loro dovrebbero costruire una piattaforma e una scala che si collega al tubo» disse Ponter.
«Una cosetta da niente» minimizzò Dern.
«E cosa accadrebbe se il varco non rimanesse sempre aperto?» chiese Adikor.
«Be', non consiglierei a nessuno di indugiare troppo nell'attraversamento, ma credo che se si richiudesse non farebbe altro che separare il passaggio e dividerlo in due. L'altra possibilità è che quella specie di galleria rimarrebbe tutta in uno dei due mondi.»
«Ad ogni modo, ci sono parecchi problemi da tenere in considerazione» avvertì Ponter. «Durante la mia permanenza in quel mondo, sono stato molto male. Ci sono dei germi ai quali non siamo immuni.»
Adikor annuì. «Dobbiamo essere molto prudenti. Bisogna assolutamente evitare di importare qui agenti patogeni pericolosi per noi, e bisognerebbe vaccinare tutti quelli che andranno dall'altra parte.»
«Il problema è risolvibile, anche se non saprei come.»
Rimasero in silenzio per un po', finché Ponter chiese: «A chi spetta la decisione di instaurare dei contatti permanenti, o anche solo ristabilire un contatto temporaneo, con l'altro mondo?»
«Sono certo che non esistano delle norme procedurali per una cosa del genere» rispose Adikor. «Anzi, dubito che qualcuno abbia mai preso in considerazione la possibilità di stabilire un contatto con un'altra Terra.»
«Se non fosse per il pericolo di importare i loro germi» disse Ponter «vi proporrei di riaprire il varco, ma…»
Di nuovo nessuno parlò. Fu Adikor a rompere il silenzio: «Ponter, come sono? È brava gente? Perché dovremmo entrare in contatto con loro?»
«Sono diversi da noi sotto molti aspetti, ma mi hanno accolto molto bene» rispose Ponter pensieroso; poi, annuendo: «Sì, credo che dovremmo farlo.»
«Va bene» disse Adikor. «Suppongo che il primo passo sia presentare un progetto al Gran Consiglio dei Grigi. Dovremo lavorarci su.»
Ponter aveva lungamente pensato a quello che Mare gli aveva confessato nell'ascensore della miniera. Non si era sbagliata: gli piaceva. Certe cose trascendevano ogni differenza di tempo e persino tra specie umane diverse.
Al pensiero di poterla rivedere il cuore cominciò a battere forte.
Chi poteva dire cosa sarebbe successo?
Be', c'era solo un modo per scoprirlo. «Sì» concluse con un sorriso «mettiamoci al lavoro.»
A settembre Toronto diventa così bella da lasciare senza fiato: il cielo limpido e immacolato, la temperatura perfetta, il vento una dolce carezza; un piacere così intenso per Mary da farle ricordare l'esistenza di Dio.
Mancavano ancora due settimane, e dopo la Festa dei lavoratori, improvviso e definitivo segno d'interpunzione, Mary sarebbe dovuta tornare al lavoro, alla sua vecchia vita di insegnante di genetica senza nessuno accanto, e a mangiare troppo. Ma per ora, almeno per ora, con quel tempo splendido Toronto sembrava il paradiso.
Durante la sua permanenza nell'Ontano settentrionale, Mary aveva perso qualche chilo, anche se sapeva che li avrebbe ripresi presto. La dieta le ricordava lo slogan di quel prodotto: se prendi Kalo non riprendi chili.
Naturalmente non aveva seguito una dieta rigorosa. Si era solo limitata a mangiare un po' meno del solito, grazie all'eccitazione per il periodo trascorso a Sudbury, l'incontro con Ponter e tutte le incredibili avventure che aveva vissuto, ora già dissolte nel nulla.
Ma un'altra ragione — nascosta, che mai sarebbe venuta a galla — era stata la violenza subita.
Quel lunedì aveva accettato di tornare a York, per un incontro tra docenti del dipartimento. Per la prima volta da quella notte tremenda — erano davvero trascorsi solo diciassette giorni? — dovette passare davanti al luogo dove era stata assalita, a quel muro di cemento contro il quale lo stupratore, la testa celata dal passamontagna nero, l'aveva violentata.
Ovviamente, la causa della violenza non era il muro. Il responsabile era lui — il mostro — e la società malata che lo aveva generato. Si avvicinò e cominciò ad accarezzare la parete grezza. Facendo attenzione a non scheggiarsi le unghie smaltate di rosso; e un pazzo pensiero le attraversò la mente. Si ricordò un altro muro di tanto tempo prima, sul quale lei e Colm avevano inciso le loro iniziali.
Era una cosa ridicola per una trentottenne, ma decise di incidere su quel muro le iniziali MV+PB; anche se, rifletté, avrebbe dovuto scrivere PB con i caratteri della lingua di Ponter. Così, ogni qualvolta fosse passata lì davanti, avrebbe sorriso invece di provare quella sensazione di insopportabile disgusto. Un sorriso mesto, sapendo che con ogni probabilità non l'avrebbe rivisto mai più. E comunque, quel ricordo… sì, di un amore, avrebbe cancellato la memoria di ciò che era accaduto lì.
Mary Vaughan procedette oltre il muro, proiettala verso il futuro.