Clifford D. Simak
La grotta dei cervi danzanti
I
Luis stava suonando il flauto quando Boyd s’inerpicò su per il sentiero irto che conduceva alla grotta. Non era affatto necessario visitare di nuovo la caverna; tutto il lavoro era ormai completato, i rilevamenti, le misurazioni, le fotografie, per estrarre da quel luogo tutte le informazioni possibili. Non soltanto i dipinti, anche se erano la parte più importante. C’erano state anche le ossa bruciate degli animali, e il carbone di legna del fuoco sul quale erano state bruciate; la piccola scorta di terre naturali di cui erano formati i pigmenti usati dai pittori… una scorta di componenti preziose, forse nascoste da un artista che, per qualche ragione non intuibile, non aveva avuto la possibilità di usarle; la mano umana atrofizzata, recisa al polso (perché era stata mozzata e, una volta mozzata, era stata lasciata lì fino a che l’avevano ritrovata gli uomini di trenta millenni più tardi?); la lampada ricavata da un pezzo di arenaria, incavata per accogliere un batuffolo di muschio, e con la cavità piena di grasso, in modo che il mucchio servisse da stoppino per dare luce a coloro che dipingevano. Tutte queste cose e molte altre, pensava Boyd con una certa soddisfazione; Gavarnie si era rivelato, forse grazie ai metodi sofisticati d’indagine scientifica utilizzati, il sito più significativo in fatto di pitture rupestri che mai fosse stato studiato… forse sotto certi aspetti meno spettacolare di Lascaux, ma molto più produttivo in quanto a dati ottenuti.
Non era necessario visitare di nuovo la grotta, eppure c’era una ragione… la sensazione assillante di aver trascurato qualche cosa, nella fretta e nella concentrazione dell’altro lavoro, la sensazione di aver dimenticato qualcosa d’importante. Al momento non gli aveva fatto molta impressione; ma ora, ripensandoci, era sempre più incline a credere che potesse avere importanza. Probabilmente era soltanto uno scherzo della sua immaginazione. Quando l’avesse rivisto (se fosse riuscito a ritrovarlo ancora, naturalmente, se non era soltanto il prodotto d’una preoccupazione retroattiva), poteva rivelarsi come un nonnulla, una sensazione scaturita per tormentarlo.
E perciò adesso era di nuovo li, a inerpicarsi sul sentiero scosceso, con il martello da geologo che gli pendeva dalla cintura, la grossa torcia elettrica stretta nella mano, e ascoltava il suono del flauto di Luis, appollaiato su una piccola terrazza poco al di sotto della bocca della caverna, allo stesso posto che aveva occupato per tutta la durata dei lavori. Luis stava accampato là nella sua tenda, qualunque tempo facesse, e cucinava su un fornelletto, e fungeva da cane da guardia senza che qualcuno glielo avesse chiesto, sempre all’erta contro gli intrusi, anche se gli intrusi erano stati pochi, a parte i rari turisti curiosi che avevano sentito parlare del progetto e avevano deviato dal loro percorso per venire a vedere. Gli abitanti della valle sottostante non avevano dato nessun fastidio: s’erano disinteressati completamente di quanto stava accadendo sul pendio sopra di loro.
Per Boyd, Luis non era un estraneo; dieci anni prima era comparso su, al progetto del riparo di rocce lontano cinquanta miglia, e c’era rimasto per due stagioni di scavi. Il riparo di rocce non era risultato produttivo come aveva sperato inizialmente Boyd, sebbene avesse gettato qualche luce nuova sulla cultura Aziliana, l’ultima dei grandi gruppi preistorici dell’Europa occidentale. Assunto come manovale, Luis s’era dimostrato un allievo capace, e via via che il lavoro progrediva gli erano state assegnate responsabilità maggiori. Una settimana dopo che era incominciato il lavoro a Gavarnie, era ricomparso.
— Ho sentito che eri qui — aveva detto. — C’è qualcosa per me?
Quando girò intorno a una brusca ansa del sentiero, Boyd lo vide, seduto a gambe incrociate davanti alla tenda sciupata. Teneva accostato alle labbra il flauto primitivo, e suonava e suonava.
Era una musica primordiale, pigolante, elementare. Anzi, quasi non era neppure musica, sebbene Boyd fosse disposto ad ammettere che di musica non s’intendeva affatto. Quattro note… erano quattro note? si chiese. Un osso cavo con una fenditura allungata come bocchino, e due fori.
Una volta aveva chiesto spiegazioni a Luis. — Non ho mai visto niente di simile, — aveva detto. E Luis aveva risposto: — Non se ne vedono molti. In qualche villaggio remoto, qua e là, nascosto tra le montagne.
Boyd lasciò il sentiero, attraversò la terrazza erbosa e sedette accanto a Luis che si staccò il flauto dalle labbra e se lo posò sulle ginocchia.
— Credevo che fossi andato via — disse Luis. — Gli altri sono partiti un paio di giorni fa.
— Sono tornato a dare un’ultima occhiata — disse Boyd.
— Ti dispiace lasciarla?
— Sì, credo di sì.
Sotto di loro la valle si estendeva nei bruni e nei gialli dell’autunno, e il fiumicello era un nastro argenteo nel sole, e i tetti rossi del villaggio erano una chiazza di colore sulla sua riva.
— È bello quassù — disse Boyd. — Tante volte mi sorprendo a immaginare come doveva essere al tempo in cui furono eseguiti i dipinti. Forse non era molto diverso da ora. Le montagne non devono essere cambiate. Non c’erano campi nella valle, ma probabilmente era un pascolo naturale. Qualche albero qua e là, ma non molti. Selvaggina abbondante. Doveva esserci l’erba per i ruminanti. Ho sempre cercato d’immaginare dove si accampava la gente. Secondo me, stavano dov’è ora il villaggio.
Si voltò a guardare Luis. L’uomo era ancora seduto sull’erba, con il flauto sulle ginocchia. Sorrideva con calma, come a se stesso. Il berretto nero era ben calcato sulla testa, la faccia abbronzata era tonda e liscia, i capelli neri tagliati corti, la camicia blu aperta sulla gola. Era giovane e forte, e senza una ruga.
— Tu ami il tuo lavoro — disse Luis.
— Gli sono devoto. E anche tu, Luis — disse Boyd.
— Non è il mio lavoro.
— Comunque — disse Boyd, — lo sai far bene. Vuoi venire con me? Un’ultima occhiata in giro.
— Devo scendere al villaggio per una commissione.
— Credevo che non ti avrei trovato — disse Boyd. — Mi ha sorpreso sentire il tuo flauto.
— Me ne andrò presto — disse Luis. — Fra un giorno o due. Non ho motivo di restare ma, come te, amo questo posto. Non ho una destinazione, non c’è nessuno che abbia bisogno di me. Non ho niente da perdere se rimango per qualche giorno ancora.
— Tutto il tempo che vuoi — disse Boyd. — Questo posto è tuo. Presto il governo manderà un custode, ma il governo si muove con molta ponderazione.
— Allora forse non ci vedremo più — disse Luis.
— Mi sono preso un paio di giorni per andare a Roncisvalle — disse Boyd. — È là che i guasconi massacrarono la retroguardia di Carlomagno nel 778.
— Ho sentito parlare di quel posto — disse Luis.
— Ho sempre desiderato vederlo. Non ne avevo mai avuto il tempo. La cappella di Carlomagno è in rovina, ma mi hanno detto che nel villaggio celebrano ancora messe per le anime dei paladini caduti. E quando sono ritornato, non ho saputo resistere alla tentazione di rivedere la grotta.
— Mi fa piacere — disse Luis. — Posso essere impertinente?
— Tu non sei mai impertinente — disse Boyd.
— Prima di andare, possiamo spezzare insieme il pane ancora una volta? Forse stasera preparerò un’omelet.
Boyd esitò e si trattenne dal proporre che Luis andasse a cena con lui. Poi disse: — Con piacere, Luis. Porterò una bottiglia di vino buono.
II
Tenendo il fascio della torcia elettrica puntato contro la parete Boyd si chinò per esaminare più attentamente la roccia. Non l’aveva immaginato; aveva avuto ragione. Li, in quel punto, la roccia non era compatta. Era fratturata in diversi pezzi, ma quei pezzi collimavano perfettamente con il resto della parete. La frattura poteva venire scoperta soltanto per caso. Se non avesse guardato direttamente in quel punto, cercandola mentre faceva scorrere il fascio luminoso, gli sarebbe sfuggita. Era strano, pensò, che qualcun altro, durante tutto il tempo che avevano lavorato nella grotta, non l’avesse trovata. S’erano lasciati sfuggire ben poco.