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Spostò il raggio della torcia sul piccolo blocco di pietra accanto alla scapola. Una lampada… arenaria scavata, per contenere il grasso e il batuffolo di muschio che serviva come stoppino. Il grasso e lo stoppino non c’erano più da molto tempo, ma un sottile velo di fuliggine rimaneva ancora intorno all’orlo della cavità che li aveva contenuti.

Quando aveva ultimato il suo lavoro, l’artista aveva lasciato lì i suoi strumenti, aveva abbandonato persino la lampada che forse ardeva ancora, con il grasso quasi consumato… li aveva lasciati li e si era calato nel cunicolo, strisciando nell’oscurità. Forse non aveva bisogno di luce: sapeva strisciare nel crepaccio al tatto, guidato dall’abitudine. Doveva aver fatto quel percorso molte volte, perché il lavoro su quelle pareti aveva richiesto parecchio tempo, forse molti giorni.

Dunque se n’era andato, strisciando nel cunicolo, e aveva usato i blocchi di pietra per chiudere l’apertura del crepaccio, e quindi si era allontanato, scendendo il pendio per raggiungere la valle dove gli animali al pascolo avevano alzato la testa per guardarlo e avevano ripreso a brucare.

Ma quando era accaduto? Probabilmente, si disse Boyd, dopo che era stata dipinta la caverna grande, forse addirittura quando ormai i dipinti della caverna avevano perduto gran parte del significato posseduto in origine… un uomo solo che era ritornato a dipingere i suoi animali segreti nel suo luogo segreto. Li aveva ritratti come una beffa della pomposa importanza magica degli affreschi nella grotta principale? Come una protesta del tradizionalismo rigoroso degli affreschi originali? O semplicemente come una risata esuberante, forse una ribellione gioiosa contro la tetraggine e la stoltezza della magia della caccia? Un ribelle, pensò, un ribelle preistorico… un ribelle intellettuale? O forse soltanto un uomo con un punto di vista leggermente in contrasto con la filosofia del suo tempo?

Ma era l’altro uomo, l’uomo antico. E lui? Ora che aveva trovato la minuscola grotta, che cosa avrebbe fatto? Come avrebbe dovuto regolarsi? Certamente non poteva voltarle le spalle e andarsene come aveva fatto l’artista, dopo aver abbandonato la tavolozza e la lampada. Perché era una scoperta troppo importante. Su questo non c’erano dubbi. Era una finestra nuova e insospettata che si spalancava sulla mentalità preistorica, una sfaccettatura del pensiero antico che nessuno aveva mai sospettato.

Doveva lasciare tutto come stava, richiudere il varco e fare una telefonata a Washington e un’altra a Parigi, disfare le valige e prepararsi a qualche altra settimana di lavoro. Richiamare i fotografi e gli altri della squadra… fare le cose sul serio. Sì, si disse: era l’unica soluzione.

Qualcosa che stava dietro la lampada, seminascosto dall’oggetto di arenaria, baluginò nella luce. Era un oggetto bianco e piccolo.

Tenendosi curvo, Boyd si spostò in avanti per vedere meglio.

Era un pezzo d’osso, probabilmente la tibia di un piccolo erbivoro. Boyd tese la mano e lo prese e, quando vide che cos’era, si aggobbì e restò immobile a fissarlo, senza sapere che cosa pensare.

Era un flauto, gemello del flauto che Luis portava nella tasca della giacca, e che aveva sempre portato in tasca dal primo giorno in cui l’aveva conosciuto, anni prima. C’era la fenditura del bocchino, c’erano i due fori rotondi. Quel giorno antichissimo, quando i dipinti erano stati completati, l’artista si era accoccolato lì, nella luce guizzante della lampada, e aveva suonato sommessamente per sé le semplici arie pigolanti che Luis aveva suonato quasi ogni sera, dopo il lavoro.

— Gesù misericordioso — disse Boyd, in un tono che era quasi di preghiera, — non è possibile!

Rimase cosi, impietrito, e i pensieri gli martellavano nella mente per quanto tentasse di scacciarli. Non volevano abbandonarlo. Li allontanava da sé, e ritornavano a sopraffarlo.

Finalmente, con uno sforzo di volontà, vinse la trance in cui lo tenevano prigioniero i pensieri. Si mise al lavoro con decisione, imponendosi di fare ciò che sapeva necessario.

Si tolse la giacca a vento e si avvolse meticolosamente la tavolozza-scapola e il flauto, lasciando la lampada. Si calò nel cunicolo e prese a strisciare, proteggendo con cura il suo fardello. Quando ritornò nella grotta grande, rimise al loro posto i blocchi di pietra per ostruire l’imboccatura del passaggio, raccolse manciate di terriccio dal pavimento e lo spalmò sui blocchi e poi lo tolse, lasciando soltanto un velo sottile aderente per mascherare l’apertura.

Luis non era nel suo accampamento, sulla terrazza sotto la caverna: era ancora a sbrigare la sua commissione al villaggio.

Quando arrivò in albergo, Boyd fece la telefonata a Washington, e non fece quella a Parigi.

III

Le ultime foglie ottobrine volavano nel vento d’autunno e un sole pallido, non completamente oscurato dalle nubi fluttuanti, brillava su Washington.

John Roberts lo stava aspettando sulla panchina del parco. Si scambiarono un cenno di saluto, senza parlare, e Boyd sedette accanto all’amico.

— Hai corso un bel rischio — disse Roberts. — Cosa sarebbe successo se quelli della dogana…

— Non era una grossa preoccupazione — disse Boyd. — Conoscevo quel tale a Parigi. Sono anni che contrabbanda roba in America. È molto abile, e mi doveva un favore. Che cos’hai scoperto?

— Forse più di quanto vorresti sentire.

— Mettimi alla prova.

— Le impronte digitali corrispondono — disse Roberts.

— Sei riuscito ad avere una lettura delle impressioni sul colore?

— Chiarissima.

— L’FBI?

— Sì, l’FBI. Non è stato facile, ma ho un paio di amici.

— E la datazione?

— Non è stato un problema. Il difficile è stato convincere il mio uomo che fosse top secret. Non ne è ancora sicuro.

— Terrà la bocca chiusa?

— Credo di sì. Senza prove, nessuno gli crederebbe. Sembrerebbe una favola.

— Dimmi.

— Ventiduemila. Più o meno trecento anni.

— E le impronte corrispondono. Quelle sulla bottiglia e…

— Te l’ho detto, corrispondono. E adesso spiegami tu come diavolo un uomo vissuto ventiduemila anni fa ha potuto lasciare le impronte digitali su una bottiglia di vino che è stata fabbricata l’anno scorso.

— È una storia lunga — disse Boyd. — Non so se dovrei spiegartela. Prima, dove hai messo la scapola?

— È nascosta — disse Roberts. — Molto ben nascosta. Puoi riaverla quando vuoi, e anche la bottiglia.

Boyd alzò le spalle. — Non ancora. Fra qualche tempo. O forse mai.

— Mai?

— Senti, John, devo pensarci bene.

— Che razza di pasticcio — disse Roberts. — Nessuno vuole quella roba. Nessuno si azzarderebbe a volerla. Alla Smithsonian non la toccherebbero neppure con un forcone. Non l’ho chiesto. Non sanno neppure che esista. Ma so che non la vorrebbero. C’è una legge, mi pare, che vieta l’esportazione clandestina da un paese…

— Sì — disse Boyd.

— E adesso quella roba non la vuoi neppure tu.

— Non ho detto questo. Ho detto semplicemente di lasciarla dov’è, per il momento. È al sicuro, no?

— È al sicuro. E adesso…

— Te l’ho detto, è una storia lunga. Cercherò di riassumerla. C’è un uomo… un basco. Venne da me dieci anni fa, quando facevo gli scavi nel riparo tra le rocce…