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Con rabbia ritrasse la mano dalla propria fronte.

Non aveva mai preso in considerazione di usare il piccolo ter’angreal che teneva nascosto per chiamare Mesaana. Tanto per cominciare, cosa molto importante, quella donna aveva di sicuro intenzione di ucciderla, molto probabilmente nonostante la protezione del Signore Supremo. All’istante, se quella protezione fosse venula meno. Lei aveva visto il volto di Mesaana, aveva conosciuto la sua umiliazione. Nessuna donna avrebbe lasciato correre una cosa del genere, in particolare non una dei Prescelti. Ogni notte lei sognava di uccidere Mesaana, spesso fantasticava su come riuscirci, tuttavia quello doveva attendere finché non avesse trovato quella donna a sua insaputa. Nel frattempo le servivano altre prove. Era possibile che né Mesaana, né Shaidar Haran avrebbero considerato Talene come una conferma di qualcosa. Le Sorelle si erano fatte prendere dal panico ed erano fuggite in passato, seppur raramente, e supporre che Mesaana e il Signore Supremo non sapessero una cosa del genere sarebbe stato rischioso.

Fece lambire dalla fiamma prima il messaggio cifrato, poi la copia decrittata, e tenne ciascuno per un angolo finché non furono bruciati quasi fino alle sue dita prima di lasciarli cadere in cima alle ceneri nella ciotola. Con una liscia pietra nera che teneva come fermacarte, mischiò le ceneri. Dubitava che qualcuno potesse ricostituire parole dalle ceneri, ma in tal caso...

Ancora in piedi, decifrò gli altri due messaggi e apprese che Yukiri e Doesine dormivano entrambe in stanze schermate contro le intrusioni. Quello non era insolito — pochissime Sorelle nella Torre dormivano senza flussi di protezione, di questi tempi — ma significava che rapire una delle due sarebbe stato difficile. Quello era sempre più facile quando veniva eseguito nel profondo della notte da Sorelle della stessa Ajah della donna. Poteva sempre venire fuori che quelle occhiate fossero un caso o le avesse immaginate. Era necessario che riflettesse su quell’eventualità.

Con un sospiro, radunò altri libricini dello scrigno e si accomodò delicatamente sul cuscino di piume d’oca sulla sedia allo scrittoio. Non con tanta delicatezza da impedire un sussulto quando il suo peso si sistemò, però. Represse un gemito. Sulle prime aveva pensato che l’umiliazione della cinghia di Silviana fosse molto peggio del dolore, ma il dolore non svaniva più del tutto. Il suo sedere era chiazzato di lividi. E l’indomani la Maestra delle novizie ne avrebbe aggiunti altri. E il giorno dopo ancora, e il giorno dopo ancora... Una tetra visione di giorni interminabili a urlare sotto la cinghia di Silviana, a sforzarsi di incontrare gli occhi di Sorelle che sapevano tutto sulle sue visite allo studio di Silviana.

Cercando di scacciar via quei pensieri, intinse una buona penna dalla punta in acciaio e cominciò a scrivere ordini cifrati su sottili foglietti di carta. Talene doveva essere trovata e riportata indietro, naturalmente. Per essere punita e giustiziata se si fosse fatta semplicemente prendere dal panico, e in caso contrario, se aveva trovato un qualche modo per tradire i suoi giuramenti... Alviarin si aggrappò a quella speranza mentre ordinava una sorveglianza attenta su Yukiri e Doesine. Bisognava trovare un modo per catturarle. E se fossero state prese per caso e per via di qualcosa che si era immaginata, si sarebbe comunque potuto inventare qualcosa da quello che avrebbero detto. Lei avrebbe guidato le correnti nel circolo. Qualcosa doveva essere fatto.

Scrisse con furia, ignara che la sua mano libera si era sollevata alla sua fronte, in cerca del marchio. La luce del pomeriggio splendeva in raggi obliqui filtrati dagli alti alberi sulla sporgenza sopra il vasto accampamento degli Shaido, chiazzando l’aria, e uccelli canterini cinguettavano sui rami sopra la sua testa. Tanagre scarlatte e ghiandaie blu saettarono in cielo come sprazzi di colore, e Galina sorrise. Quella mattina era caduta una pesante pioggia e nell’aria c’era ancora un tocco di frescura sotto bianche nubi sparse, che fluttuavano lente. Probabilmente la sua giumenta grigia, col collo arcuato e il passo brioso, era stata proprietà di una nobildonna o perlomeno di qualche ricco mercante. Nessun altro tranne una Sorella si sarebbe potuto permettere un animale tanto raffinato. Le piacevano quelle cavalcale sul destriero che aveva chiamato Rapida, poiché un giorno l’avrebbe portata rapida fino alla libertà; proprio come le piacevano quei momenti di solitudine in cui poteva riflettere su ciò che avrebbe fatto una volta riottenuta la sua libertà. Aveva dei piani per ripagare coloro che l’avevano delusa, a cominciare da Elaida. Pensare a quei piani e alla loro ultima messa in atto era molto piacevole.

Perlomeno si godeva le sue cavalcate finché riusciva a dimenticare che quel privilegio era un segno del modo completo in cui Therava la possedeva tanto quanto la pesante veste di seta bianca che indossava e la sua cintura e il collare tempestati di gocce di fuoco. Il suo sorriso lasciò il posto a una smorfia. Ornamenti per un animaletto a cui era consentito divertirsi quando non gli veniva richiesto di divertire il suo padrone. E non poteva togliersi quei contrassegni ingioiellati, nemmeno lì fuori. Qualcuno avrebbe potuto vedere. Cavalcava lì per allontanarsi dagli Aiel, tuttavia poteva imbattersi in loro anche nella foresta. Therava sarebbe potuta essere informata. Per quanto difficile ammetterlo, temeva quella Sapiente dagli occhi rapaci fin nelle ossa. Therava riempiva i suoi sogni, e non erano mai piacevoli. Spesso si svegliava piangente e madida di sudore. Destarsi da quegli incubi era sempre un sollievo, che riuscisse o meno a dormire ancora un po’ per il resto della nottata.

Non c’era mai nessun ordine di non scappare per queste cavalcate, un ordine a cui lei avrebbe dovuto obbedire, e quella mancanza causava la sua dose di amarezza. Therava sapeva che Galina sarebbe tornata, per quanto maltrattata, nella speranza che un giorno la Sapiente potesse rimuovere quel maledetto giuramento di obbedienza. Sarebbe stata in grado di incanalare di nuovo, quando e come lei voleva. Sevanna a volte la faceva incanalare per eseguire compiti umili, ma ciò accadeva così di rado che lei bramava anche solo quell’occasione di abbracciare saidar. Therava rifiutava di lasciarle semplicemente toccare il Potere a meno che lei non implorasse e si umiliasse, ma poi le negava il permesso di intessere un filamento. E lei si era umiliata, si era degradata completamente solo perché le venisse concesso quel briciolo. Si accorse che stava digrignando i denti e si costrinse a smettere.

Forse il Bastone dei Giuramenti nella Torre poteva liberarla da quel giuramento quanto la verga quasi identica che possedeva Therava, tuttavia non poteva esserne certa. I due oggetti non erano identici. Era solo una differenza nel disegno, ma se quello avesse indicato che un giuramento pronunciato su uno era specifico per quel bastone? Non osava andarsene senza la verga di Therava. La Sapiente la lasciava spesso allo scoperto nella sua tenda, ma ‘tu non la raccoglierai mai’ aveva detto.

Oh, Galina poteva toccare quella verga bianca spessa come un polso, accarezzare la sua superficie liscia, eppure, per quanto si sforzasse, non poteva fare in modo che la sua mano si chiudesse su di essa. Non a meno che qualcuno gliela porgesse. Almeno sperava che quello non contasse come raccoglierla. Doveva essere così. Solo il pensiero che potesse non essere così la riempiva di desolazione. La brama nei suoi occhi quando fissava la verga suscitava i rari sorrisi di Therava.

‘La mia piccola Lina vuole forse essere libera dal suo giuramento?’ diceva in tono beffardo. ‘Se è così Lina dev’essere un animaletto davvero bravo, poiché l’unico modo in cui prenderò in considerazione di liberarti sarà convincermi che rimarrai il mio animaletto anche allora.’

Una vita come giocattolo di Therava e bersaglio della sua collera? Un surrogato da picchiare ogni volta che Therava era adirata contro Sevanna? ‘Desolazione’ non era un termine abbastanza forte per descrivere i propri sentimenti al riguardo. ‘Orrore’ era più appropriato. Temeva che sarebbe impazzita, se fosse accaduto. E allo stesso modo temeva che non ci potesse essere una fuga nella pazzia.