«Perché mai non sei in viaggio per Nassad, Trom?» Le parole di Valda erano tinte di disapprovazione. «Gli altri lord capitani saranno ormai a metà strada.» Lui stesso arrivava sempre tardi agli incontri con i Seanchan, forse per affermare che ai Figli rimaneva qualche brandello di indipendenza — trovarlo già pronto a partire era una sorpresa: questo incontro doveva essere importante, ma si assicurava ogni volta che gli ufficiali di alto rango arrivassero puntuali perfino quando ciò significava partire prima dell’alba. Apparentemente era meglio non tirare troppo la corda con i loro nuovi dominatori. La sfiducia verso i Figli era sempre forte nei Seanchan.
Trom non mostrava nulla dell’incertezza che ci si poteva aspettare da un uomo che deteneva il suo rango attuale a malapena da un mese. «Una questione urgente, mio lord capitano comandante» disse in tono calmo, rivolgendogli un inchino preciso, né più alto né più basso di quello che esigeva il protocollo. «Un Figlio sotto il mio comando accusa un altro dei Figli di aver abusato di una donna sua parente e reclama il Giudizio della Luce, che secondo la legge tu devi concedere o negare.»
«Una strana richiesta, figlio mio» disse Asunawa, inclinando la testa con aria interrogativa sopra mani serrate, prima che Valda potesse parlare. Perfino la voce del Sommo Inquisitole era addolorata: suonava afflitto per l’ignoranza di Trom. I suoi occhi parevano scuri tizzoni ardenti in un braciere. «Di solito era l’accusato a chiedere di affidare il giudizio alle spade, e abitualmente quando sapeva che le prove avrebbero dimostrato la sua colpevolezza, ritengo. In ogni caso, il Giudizio della Luce non viene invocato da quasi quattrocento anni. Forniscimi il nome dell’accusato e mi occuperò io della faccenda in modo discreto.» Il suo tono divenne gelido come una caverna invernale priva di sole, anche se i suoi occhi ardevano ancora. «Siamo fra estranei, e non possiamo permettere che sappiano che uno dei Figli è capace di una cosa del genere.»
«La richiesta era diretta a me, Asunawa» sbottò Valda. La sua occhiataccia poteva essere scambiata per odio palese. Forse si trattava solo di disprezzo per l’intromissione dell’altro uomo. Scostando un lato del mantello sopra la spalla per mostrare la sua spada con la guardia ad anello, appoggiò la mano sulla lunga elsa e si mise dritto. Sempre propenso a gesti plateali, Valda alzò la voce in modo che perfino le persone all’interno probabilmente lo udissero, e declamò piuttosto che limitarsi a parlare.
«Ritengo che molte delle nostre antiche usanze dovrebbero essere ripristinate, e quella legge è ancora valida. Sarà sempre valida, come promulgata in tempi antichi. La Luce concede giustizia poiché la Luce è giustizia. Informa il tuo uomo che può lanciare la sua sfida, Trom, e fronteggiare colui che accusa all’arma bianca. Se costui prova a rifiutare, io dichiaro che ha ammesso la sua colpa e ordino che sia impiccato sul posto, e che i suoi beni e il suo rango siano confiscati in favore dell’accusante, come prevede la legge. Così ho detto.» Quelle parole furono accompagnate da un’altra occhiataccia rivolta al Sommo Inquisitore. Forse c’era davvero dell’odio in quello sguardo. Trom si inchinò formalmente ancora una volta. «Lo hai informato tu stesso, mio lord capitano comandante. Damodred?»
Galad sentì freddo. Non il freddo della paura, ma quello dettato da una sensazione di vuoto. Quando Dain, ubriaco, si era lasciato sfuggire le voci confuse che erano giunte alle sue orecchie, quando Byar aveva confermato con riluttanza che erano più che semplici voci, la rabbia si era impadronita di Galad, un fuoco che l’aveva consumato fino alle ossa portandolo quasi alla pazzia. Pira stato certo che gli sarebbe esplosa la testa se il cuore non gli fosse scoppiato prima. Adesso era ghiaccio, svuotato di qualunque emozione. Anch’egli si inchinò in modo formale. Molto di quanto aveva da dire era previsto dalla legge, eppure scelse il resto con cura, per risparmiare più vergogna possibile a una memoria per lui cara.
«Eamon Valda, Figlio della Luce, io ti convoco al Giudizio della Luce per indebita aggressione alla persona di Morgase Trakand, regina dell’Andor, e per il suo assassinio.» Nessuno era stato in grado di confermare che la donna che lui considerava sua madre fosse morta, eppure doveva essere così. Una dozzina di uomini era certa che fosse scomparsa dalla Fortezza della Luce prima che cadesse nelle mani dei Seanchan, e altrettanti testimoniavano che non era stata libera di andarsene di propria volontà.
Valda non mostrò alcuno sconcerto per quell’accusa. Era possibile che il suo sorriso fosse inteso a mostrare rammarico per la follia di Galad nell’affermare una cosa del genere, tuttavia mischiato a esso c’era disprezzo. Aprì la bocca, ma Asunawa si intromise ancora una volta.
«Questo è ridicolo» disse in tono più di tristezza che di rabbia. «Prendete quel pazzo e scopriremo di quale complotto degli Amici delle Tenebre volto a screditare i Figli della Luce fa parte.» Fece un cenno e due dei massicci Inquisitori avanzarono di un passo verso Galad, uno con un sogghigno crudele, l’altro privo di espressione, come una persona che faceva semplicemente il proprio lavoro. Solo un passo, però. Vi fu un sommesso raschiare per tutto il cortile mentre i Figli allentavano le spade nei loro foderi. Almeno una dozzina di uomini le sguainarono del tutto, lasciando pendere le lame al loro fianco. Gli stallieri amadiciani si rannicchiarono su sé stessi, cercando di diventare invisibili. Probabilmente sarebbero fuggiti, se solo avessero osato. Asunawa si guardò attorno, con le sopracciglia che si alzavano sulla fronte dall’incredulità e pugni serrati che stringevano il mantello. Stranamente perfino Valda parve sbigottito per un istante. Di certo non si era aspettato che i Figli avrebbero permesso un arresto dopo la sua stessa dichiarazione. Anche in caso contrario, si riprese in fretta.
«Vedi, Asunawa,» disse in tono quasi allegro «i Figli seguono i miei ordini e la legge, e non i capricci di un Inquisitore.» Protese l’elmo da un lato perché qualcuno lo prendesse, «Io nego la tua ridicola accusa, giovane Galad, e ti costringo a rimangiarti la tua sporca menzogna. Poiché di una menzogna si tratta, o al massimo una folle accettazione di qualche malevola diceria diffusa dagli Amici delle Tenebre o altri che vogliono il male dei Figli. A ogni modo, tu mi hai diffamato nella maniera più ignobile, perciò accetto la tua sfida al Giudizio della Luce, in cui io ti ucciderò.» Questo rientrava a stento nel rituale, ma aveva negato l’accusa e accettato la sfida: sarebbe bastato. Accorgendosi che reggeva ancora l’elmo nella mano protesa, Valda si accigliò verso uno dei Figli che non era a cavallo, un esile Saldeano di nome Kashgar, finché l’uomo non si fece avanti e glielo prese. Kashgar era soltanto un sottotenente, quasi giovanile malgrado un grosso naso aquilino e folti baffi come corna rovesciate, eppure si mosse con palese riluttanza. La voce di Valda fu più cupa e aspra mentre proseguiva, slacciandosi la cintura portaspada e porgendogli anche quella.
«Abbine cura, Kashgar. È una spada col simbolo dell’airone.» Togliendo la spilla dal suo mantello di seta, lo lasciò cadere sul selciato, seguito dal tabarro, e le mani andarono alle fibbie dell’armatura. Pareva che fosse restio a vedere se altri sarebbero stati riluttanti ad aiutarlo. Il suo volto era abbastanza calmo, tranne occhi adirati che promettevano castigo ad altri, oltre a Galad. «A quanto ne so, tua sorella vuole diventare Aes Sedai, Damodred. Forse capisco esattamente qual è il motivo di tutto questo. C’è stato un tempo in cui avrei rimpianto la tua morte, ma non oggi. Potrei mandare la tua testa alla Torre Bianca in modo che le streghe possano vedere il frutto delle loro trame.»
Con la preoccupazione che gli corrugava il volto, Dain prese mantello e cintura portaspada di Galad, poi restò a spostare il peso da un piede all’altro, come se non fosse certo di fare la cosa giusta. Be’, gli era stata concessa la sua opportunità e adesso era troppo tardi per cambiare idea. Byar mise una mano guantata sulla spalla di Galad e si sporse vicino a lui.